il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2020
Biografia di Pierfrancesco Favino
A sette anni trastulla familiari e compagni con le imitazioni di Totò, Fausto Leali e Drupi. Poi, il diploma all’Accademia Silvio D’Amico e il teatro, dai Fratelli Karamazov al Pasticciaccio di Gadda. La via è affollata, il ragazzo mediano, eppure si farà. Nel 2010 la terza stagione di Boris gli vaticina il corrente successo: l’improbabile Martellone (Max Bruno) rosica perché Favino, ingrassato dieci chili, gli soffia il ruolo di Pacciani e, ingrassando altri dieci chili, si prepara a sfilargli pure quello di Spadolini. Mutatis mutandis, dieci anni più tardi ecco Buscetta e Craxi. Se non è il più bravo, Pierfrancesco Favino ci sta lavorando. La crescita è quella del bosco: ombra, silenzio, epifania. Quando a Sanremo 2016 traggono il compendio: “Recita divinamente, canta, balla, suona e parla inglese. Favino conquista il pubblico femminile (e non solo)”, lui sorride e porta un panino alla compagna, l’attrice Anna Ferzetti. Quando piange è per La notte poco prima della foresta di Bernard-Maria Koltès: il monologo lo fa tirare per la giacchetta, perché Sanremo è Sanremo, ma lui non disarma, perché Favino è Favino. Anna, le due figlie Greta e Lea custodite nel privato, in pubblico licenza di rubare: la prima volta che incrocia Gianni Amelio nel 2004, gli bastano tre minuti sullo schermo per fare sue Le chiavi di casa, che pure apparterrebbero ad altri. Amelio manda a memoria, periodicamente la rinfresca facendo con la mano “tre” come quei minuti e quindici anni dopo lo vuole per l’innominato Bettino Craxi di Hammamet: lui e nessun altro. Cinque ore di trucco, Favino scompare nel make-up protesico e ricompare il leader socialista. Mimando l’artiglio craxiano, stavolta è lui a fare tris con la mano e certamente sono sue le chiavi di casa di Hammamet.
Sulle labbra degli spettatori, l’esclamazione che fu già per Il Traditore: “Che bravo Favino!”, e silenziosa la domanda: “Ma da quando è così bravo Favino?”. Picchio molto ha fatto per meritare la prima ed eludere la seconda. Si concede deviazioni – pochi giorni fa la vacanza instagrammata alle Maldive, prima la pubblicità Barilla – ma non inversioni: la popolarità acquisita al festival della canzone decide di non usarla per apparire, ma per scomparire. Via dalla pazza folla, si scalda con il grammelot di D’Artagnan nei Moschettieri del re di Veronesi, si prova con il Buscetta di Bellocchio, si conferma con il C. di Amelio. La consecutio temporum non ammette tentennamenti, e Pierfrancesco preferisce la subordinata dell’interprete: a differenza dei colleghi che fanno sé stessi, capisce che possono venirti a vedere per due, tre film, ma perché continuino tocca nascondersi, dentro ai ruoli e fuori dal set. È il carnet a suggerirglielo: dal Libanese di Romanzo criminale (2005) al televisivo Gino Bartali, da Masino a Bettino, il suo ruolino d’attore è lessico familiare e sintassi patria, dunque, urge sottrarsi. Come molti altri, è pronto a tutto: chiedere a Bellocchio, a cui timoroso di non essere preso strappò un secondo provino per Il Traditore; come pochi altri, non è buono a nulla: chiedere sempre a Bellocchio. Gli esordi sono ascissa televisiva – l’apporto del piccolo schermo nella sua carriera è maliziosamente ridimensionato, se non artatamente omesso – e ordinata cinematografica di un piano cartesiano: diventare il migliore.
In tv mutua da Fenoglio, per la regia di Alberto Negrin, quel che diverrà il suo approccio artistico, il corpo a corpo con il ruolo: Una questione privata (1991). Al cinema incrocia i guantoni con i Pugili (1995) di Lino Capolicchio e perfeziona la combinazione: osare e trasformarsi. Cercano (Capolicchio) un veneto e lui è romano, cercano (Negrin) un pel di carota e lui è moro, cercano qualcuno e trovano Favino. Ricambierà, trovando vite di uomini illustri: Bartali (2005); Cristoforo Colombo (Una notte al museo, 2006); Giuseppe Pinelli (Romanzo di una strage, 2012); Giorgio Ambrosoli (la miniserie Qualunque cosa succeda, 2014). Per i televisivi Padre Pio (2000) e Ferrari (2003) è al fianco del protagonista Sergio Castellitto, un esempio, ma forse il modello di Favino è un altro: Gian Maria Volonté, teoria e prassi dell’attore-autore. Per Bartali Picchio non macina solo migliaia di chilometri in bicicletta, ma tappezza la camera con le foto del Gino: non è tentata osmosi, bensì metodo, e viene da Volonté. Altro non viene: l’impegno? Non forzatamente. L’intellettualità? Non necessariamente. Piuttosto, l’architettura faviniana prende da Mies van der Rohe, Less is more!: Favino è come appare e quando, per mimesi e metamorfosi, scompare è ancora di più. Alla mente come strumento attoriale ha sempre anteposto il corpo, e in fondo più del prostetico per Craxi può quell’artiglio, come per Buscetta i fianchi smodati scoperti al mare: l’immaginazione s’è fatta carne.
E vedremo se saprà farsi anche flesh: con Hollywood c’ha provato, dal ricordato Night at the Museum a Le cronache di Narnia – Il principe Caspian, da Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee ad Angeli e demoni di Ron Howard, ma tocca stare là, e nemmeno è detto valga la pena. Il Traditore e, in misura minore, Hammamet hanno affaccio internazionale, ma non sono questi i titoli dirimenti per il futuro del Nostro: lo stato dell’arte lo dirà a San Valentino Gli anni più belli di Muccino, che l’ha diretto ne L’ultimo bacio (2001), Baciami ancora (2010) e A casa tutti bene (2018). Un titolo per decennio, sicché Gabriele è la cartina al tornasole di Pierfrancesco: senza trucco (Craxi) né parrucco (Buscetta), capiremo quel che è diventato. E quel che potrà cantare la Favineide degli Anni Venti. @fpontiggia1