Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2020
Storie, leggende e curiosità sui cocktail
«Volevo assaggiare questo nuovo drink. È tutto quello che facciamo, no? Guardare cose e assaggiare nuovi drink», fa dire Ernest Hemingway al protagonista del racconto Colline come elefanti bianchi, anche se forse parlava di se stesso. Perché è difficile resistere alla sirena dei cocktail, sempre nuovi, sempre in evoluzione, sempre magici. Se ci riflettete bene, l’alcol ha a che fare con la magia, e non solo per il suo potere inebriante. La vera “magia” è quella di creare, attraverso la sapiente arte della mixology, qualcosa che sia molto di più della somma dei singoli ingredienti.
Per gli addetti ai lavori, però, non è questione di magia ma di competenza: quello dei bartender è mestiere che va affinato, studiato, allenato. Gesti (come lo shakerare), strumenti (immancabile il cucchiaio miscelatore) e ingredienti (il più banale, ma fondamentale, è il giaccio) fanno della mixology un’arte affascinante, raccontata nel volume Old Fashioned Cocktails in cui Maria Teresa Di Marco e Walter Bonaventura ripercorrono la storia (e le storie) dei cocktail più famosi e le loro «ricette».
Sono storie ricche di aneddoti e leggende, e nessuno si chiede più se siano vere o meno, quello che conta è il risultato finale. Si narra, ad esempio, che l’Ernest Hemingway special sia nato grazie al suggerimento dello scrittore americano che, un giorno imprecisato del 1935, dopo aver bevuto un Daiquiri al bancone di Costantino Ribalaigua Vert («mito di ogni bartender e creatore della miscelazione caraibica»), sentenziò: «Buon drink, però sarebbe meglio senza zucchero e con rum doppio». Detto fatto: Ribalaigua Vert prese nota, aggiungendo però un suo tocco personale, un po’ di succo di pompelmo.
Sfogliando il ricettario si scopre poi che il Cuba Libre deve il suo nome al grido dei soldati americani guidati da Theodore Roosvelt a supportare gli isolani nella Guerra d’indipendenza cubana del 1895-98 contro la Spagna. «Por Cuba Libre!» urlavano i rough riders per brindare con un mix di rum e cola. Questo semplice miscuglio è in realtà «un grado zero della miscelazione», si legge nel volume, dove però si fa un passo ulteriore: per raccogliere la sfida di ridare dignità a un drink che a molti ricorda «immondi beveroni in bicchieri di plastica con la Coca Cola alla spina sorbiti nelle discoteche e alle feste», i due autori suggeriscono una versione leggermente più elaborata, che parte da un Daiquiri arricchito con l’Angostura e sposato con la Coca Cola «rigorosamente in bottiglietta di vetro».
Se è vero che i nomi di alcuni cocktail evocano i luoghi in cui sono stati creati per la prima volta, è altrettanto vero che certe denominazioni possono trarre in inganno. È il caso dell’Americano, il drink a base di Bitter, Vermouth e Soda. Molti sostengono che il nome non abbia nulla a che fare con la geografia, ma col gusto: Americano verrebbe da «amaricare» in quanto sia Vermouth sia Bitter sono prodotti con botaniche amaricanti tra cui l’assenzio, la china e la genziana.
Lo stesso – o giù di lì – vale per il Moscow Mule, definito «ciò che il Mojito fu tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio». Il Moscow Mule va molto di moda tra i giovanissimi (il duo Benji & Fede gli ha intitolato il tormentone estivo del 2018, tanto per dire) ma forse pochissimi sanno che questo drink non ha nulla a che fare con la Russia, se non per la presenza di vodka. È un cocktail nato nel 1941 negli Stati Uniti, e lì è diventato famoso anche grazie alle campagne pubblicitarie con Woody Allen (e ai suoi film, in cui qua e là compare la tipica tazza di rame in cui viene servito il Moscow Mule).
A proposito di cinema, anche un altro cocktail deve la sua fama al piccolo schermo: è il Cosmopolitan, reso un’icona di stile dalle protagonista della serie tv Sex & The City. Esattamente come le scarpe di Carrie Bradshaw (interpretata da Sarah Jessica Parker), però, anche i cocktail passano di moda: provate oggi a ordinare un Tequila Sunrise e poi fateci sapere se non vi sembra di essere stati catapultati indietro nel tempo. Negli anni ’70, per la precisione, quando questo drink era il re incontrastato tra i «disco cocktail», prima di finire nel «meritato limbo di quella che ora viene considerata la dark age della mixology», scrivono Di Marco e Bonaventura.
Qualcosa di simile è probabilmente accaduta anche al Dry Martini, così «storico» da risultare «antico». Il Dry Martini ha 150 anni di storia e migliaia di varianti, sebbene sia realizzato con due soli ingredienti (60 ml di London dry gin e 10 ml di dry Vermouth, secondo la ricetta proposta nel volume).
Per il Martini, così come per decine di altri cocktail, gli ingredienti liquidi non sono tutto: contano anche le guarnizioni (nel Martini non può mancare l’oliva, nel Margarita non può mancare il sale sul bordo del calice, nel Pimm’s Cup non può mancare il cetriolo). Ma a contare sono anche i bicchieri: ogni cocktail ha il suo, ed è forse proprio a quella iconica forma che si deve il successo estetico del bere. «Dimmi che cosa bevi e ti dirò chi sei», insomma, ma qui non c’è nemmeno bisogno di dirselo: basta guardare il bicchiere che ha il mano e il colore del suo contenuto per indovinare chi si ha davanti. Un tipo da Negroni o da Long Island, una tipa da Mint Julep o da Rossini.
Tra i drink che non conoscono crisi (o quasi) c’è lo Spritz. Il “quasi” si riferisce a un polemico articolo apparso nel maggio del 2019 sul New York Times: «The Aperol Spritz is not a good drink», titolava senza mezzi termini il quotidiano americano. Il giornalista Rebekah Peppler lo paragonava a «un succo di frutta dopo un allenamento di football in una calda giornata», scatenando le ire degli italici bartender. «Tutta invidia», si vocifera dietro i banconi dei bar nostrani, tra una fetta d’arancia e una spruzzata di Soda. Nessuno tocchi lo Spritz, insomma. Almeno fino a quando non ci sarà un nuovo cocktail di moda.