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 2020  gennaio 12 Domenica calendario

Storie della matita italiana

Probabilmente la più famosa, o quanto meno la più letterariamente celebrata, è la Blackwing 602, con la gomma a spatolina piatta, la morbidezza piacevole di un 3 o 4B e la scritta nel dorso «Half the Pressure, Twice the Speed». Ne era conquistato Vladimir Nabokov, mentre per Hemingway adoperarla era uno dei comandamenti dello scrittore, e poi c’era un appassionato come Steinbeck, e ancora registi, coreografi o compositori come Aaron Copland, che con lei segnò sul pentagramma, quel capolavoro che è «Appalachian Spring». E potrei continuare. Di certo, se lei ancora adesso (riedita da Palomino) è ricercata da collezionisti di tutto il mondo (cultori insospettabili, pronti a cercare i pezzi più difficili in dispersi mercatini e ripostigli d’ogni dove), molte matite italiane non sono da meno.
E hanno una storia avvincente che, finalmente, viene ricostruita da Giovanni Renzi in un libro sontuoso (qualche refusetto di troppo, da matita rossa comunque...), appena edito da Silvana Editoriale, che è un tuffo al cuore e promana profumo delle vecchie cartolerie, mete del desiderio di chi ama scrivere e disegnare. Si intitola Matite. Storia e pubblicità (pagg. 150, € 36) e rientra in quel fecondo filone di analisi di grafica e pubblicità (scatole di latta, poster e manifesti...) che da anni, e quasi in splendida solitudine, Silvana sta tenacemente percorrendo. Renzi, poi, è una garanzia: tra i massimi esperti al mondo di sedie Thonet (ma autore anche di un pregevole libro su un “concorrente” udinese dei viennesi, la Società Antonio Volpe) e – quindi – di legno curvato, conosce intimamente i materiali, per cui ne osserva caratteristiche e fortune dal punto di vista dello storico, dell’architetto e dell’archivista. Di queste cose, insomma, sa tutto, si documenta ulteriormente e le sa presentare. Ragione per cui il libro è certamente la valanga di oltre 500 immagini che testimoniano la bellezza “nuda” degli oggetti (fotografati molto bene da Gianalberto Cigolini e scovati in collezioni preziose): e viene subito voglia di iniziarne una, di collezione; ma, anche, la talvolta strepitosa qualità delle illustrazioni e delle campagne pubblicitarie che, in un secolo, hanno contraddistinto la storia delle matite nazionali. Ci sono i migliori: da Sacchetti a Depero, da Dudovich a Sepo a Magagnoli, in una fantasia di immagini che dovevano ingolosire i futuri, giovani e meno giovani, compratori e utilizzatori e costituiscono un pezzo ancora poco esplorato dell’arte italiana del secolo scorso.
È che il destino della matita (o lapis: non sono perfetti sinonimi, e c’entra anche la sanguigna, ma ci sono differenze storiche, etimologiche e persino geografiche da indagare meglio; ma non sarà un caso che la Fila di Firenze sarà l’acronimo di Fabbrica Italiana Lapis ed Affini...) è singolare. Oggetto comune e umile, ha la ventura di essere usato e di essere alla portata (di mano) di tutti, ma non “visto”. Se ne perdono, troppo facilmente, per abitudine, per pigrizia, le tracce visive: oggetto servile non viene, se non dai veri appassionati (un amico, a Natale, mi ha regalato due scatolette di latta con “intonse” Faber Castell degli anni 60: ma che profumo il legno laccato e la grafite, e peccato non poterle temperare e usare, ma sarebbero dure per i miei gusti), apprezzato per la sua inaspettata bellezza. Qui Renzi ribalta la questione, ponendoci di fronte a cotale scabra perfezione di segni visivi (le scritte, i colori) e tattili (per me, più morbida meglio è: scivola sul foglio, e il nero davvero lascia un segno grasso). E ripercorre, insieme, una vicenda che è, inestricabilmente, culturale, sociale e imprenditoriale. Perché, dal 1920, improvvisamente, la produzione di matite italiane subisce un’accelerazione. Nel 1920 si lanciano sul mercato aziende che poi diventeranno gloriose e poi subiranno, chi più chi meno, le oscillazioni della storia (l’autarchia, le fortune, i cambi di destinazione, le fusioni, i fallimenti, le innovazioni, l’avvento delle penne biro, i pc, ecc.) e la concorrenza spietata, anche per la grande qualità, di case straniere come la Faber Castell, la Hardtmuth, la Conté, la Caran d’Ache. Parliamo della Fila a Firenze, l’unica rimasta operativa, della FIM (Fabbrica Italiana Matite) a Torino e, a Milano, la Presbitero, il cui fondatore, Pietro, firmerà la voce «Matita» per la Treccani. Perché proprio un secolo fa? Perché le miniere di grafite italiane, dopo l’uso bellico, dovevano essere riconvertite e una legge che proibì di esportare il materiale e alzò i dazi sulle matite d’importazione, fece nascere le condizioni per una offerta nuova. I competitori non furono impreparati e cercarono di offrire prodotti d’eccellenza (in molti casi riuscendo) e a veicolarli con pubblicità potenti. Celebre l’uomo con le matite in testa realizzato per la Presbitero da Roberto Aloy. Sarà l’inizio di una storia che porterà tutti a maneggiare matite; e molti ad amarle. Oggi, di quel mondo (quasi) perduto, restano i cultori della materia: a Milano, alla Tipografia Bonvini, Marta Sironi ha appena dedicato alle matite una deliziosa mostra; un maestro come Tullio Pericoli, che le matite le colleziona, le usa, le sfinisce e ne fa anche oggetto di scultura, ha scritto per la “sua” matita un libro-culto di “Storie” con esempi di tratti che sanno emozionare. 
Infine, una perla: citata nel libro. Ecco a voi all’opera un mago. «Lavorava sulla pagina come se accordasse un violino. Quella matita si muoveva con una straordinaria leggerezza e rapidità, sembrava che tracciasse nel vuoto la danza delle api». E poi: «Lavorava rapidamente, scartava delle foto, ne teneva ferme delle altre sotto il raggio dei suoi occhialini quasi mongoli. Diceva “tagliamo qui, prendiamo solo questo particolare, e lo mettiamo qui”. Poi segnava un punto sul foglio con la matita, esilissimo. Quei puntini a matita erano idee». Bene. Chi scrive è Umberto Eco (!), chi è descritto Bruno Munari (!!). Mai, come in mano a lui, quella magica bacchetta di legno e grafite, è sembrata una bacchetta magica. Piena di idee, di sogni, di evoluzioni, di linee, di tracce scure, provenienti dal buio della Terra e pronte a illuminare di nero la nostra umanità.