Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 12 Domenica calendario

Cemento cinese, che bellezza

Un’avanguardia armata di cemento illumina il cammino dell’architettura cinese. Non è una grossa falange, ma un ristretto manipolo di architetti capaci di esprimere le potenzialità nascoste di un materiale che è allo stesso tempo «globale» ma anche legato a fattori locali specifici.
Di cemento, negli ultimi anni la Cina ne ha utilizzato più che gli Stati Uniti in tutto il secolo scorso. Con una qualità però quasi sempre scarsa, per colpa della frammentazione del processo edilizio (che impedisce il controllo del cantiere), dell’impreparazione della manodopera e della fretta del mercato. Con risvolti pericolosi: indagini hanno svelato ad esempio l’utilizzo di sabbia di mare non trattata per produrre il cemento del Ping’an Finance Center di Shenzhen, secondo grattacielo del paese, alto 599 metri.
Come spiega il libro Chinese Brutalism Today. Concrete and Avant-garde Architecture di Alberto Bologna, ricercatore a Torino e Beijing, due generazioni di architetti – nati tra gli anni Cinquanta e Settanta – hanno invece saputo trovare un modus operandi tale da trasformare i vizi in virtù, giungendo a un linguaggio sofisticato e «propriamente cinese». Consci delle falle del sistema, hanno capito di non poter puntare alla qualità di paesi come la Svizzera, dove il cemento è rifinito e lisciato come fosse marmo apuano. Con un passo concettuale e costruttivo non indifferente, hanno quindi saputo valorizzare l’imperfezione costruttiva, tramutandola in ornamento volontario. In altre parole, qui il difetto è pianificato con cura: nella costruzione delle casseforme, cioè lo stampo nel quale il cemento viene colato, sono utilizzati intrecci di canne di bambù o doghe di legno che lasceranno un’impronta sulle pareti dell’opera finale, indelebili tatuaggi o cicatrici che sono la cifra caratteristica di architetti come Liu Jiakun, Wang Shu, Yung Ho Chang o Vector Architects. 
Da questa ostentazione delle «scabrosità» cementizie deriva il titolo del libro.
Il termine Brutalismo fu infatti adoperato nel secolo scorso per definire quelle opere (vedi il tardo Le Corbusier) in cui l’esposizione del béton brut – il cemento a vista – esprimeva un’attitudine artistica e costruttiva, nonché una certa resistenza nei confronti della modernità. E difatti, lavorando sulle possibilità espressive dell’ornamento impresso sulla superficie dei loro edifici, gli architetti cinesi riescono a rivalutare la tradizione dell’artigianato, chiamando a rapporto ebanisti e fabbri locali. Il cemento svela così la sua dipendenza da fattori del luogo, quali gli ingredienti e le tecniche per metterlo in opera, diventando il mezzo con cui affermare una nuova identità nazionale o addirittura regionale.
Non tutti seguono però questa strada: per molti, anche i più bravi, persiste l’ambizione di eguagliare la levigatezza del cemento di Christian Kerez o di Tadao Ando. Guardando i risultati dal vero – le immagini pubblicate sulle riviste sono spesso ritoccate ad arte con Photoshop – ci si accorge dell’impossibilità di tale obbiettivo, dovuto all’impreparazione dell’industria cinese. 
I più ostinati devono prendere un’ulteriore via, impervia e costosa, recentemente seguita da Renzo Piano nel suo cantiere di Hangzhou. L’onorevole architetto è infatti riuscito a far accettare al suo cliente – un cliente potente, in Cina, può quasi tutto – l’impiego di un’impresa di costruzioni veneta (Dottor Group), che ha trasferito lì un centinaio di dipendenti per studiare come realizzare un cemento perfetto. Una volta sul posto, l’impresa si è resa conto delle difficoltà nell’acquisto dei materiali adatti e nella verifica delle prestazioni tecniche. Quanto resiste un bullone cinese per una cassaforma? Difficile dirlo con esattezza. Così, il pragmatismo veneto – che batte anche quello cinese – ha spostato tutto in Italia, dove con prototipi in scala reale si è riprodotta l’opera in vitro (con bulloni austriaci). Il cemento di Piano sarà dunque fantastico, ma tale procedimento non può funzionare da modello.
Come afferma Pierre-Alain Croset nell’introduzione, questo libro ha il merito di mostrare un originale modo di concepire la critica dell’architettura contemporanea cinese, finora spesso basata su categorie semplicistiche, oscillanti tra cinismo, stupore o ripudio. L’autore è invece riuscito a superare tali clichés eleggendo il fatto costruttivo – come è pensato, disegnato e realizzato il cemento cinese? – a terreno di comune confronto con i diretti interlocutori, grazie agli strumenti metodologici della construction history. In questo modo, si sono riuscite a smussare almeno in parte le molte differenze culturali tra Cina e Occidente, aggiungendo un tassello al complesso mondo dei Chinese studies. Il libro, infatti, non è soltanto una cronaca di cantiere: facendo tesoro di altri approcci disciplinari, fa vedere come ci si possa avvicinare alla comprensione di un mondo professionale separato da noi da tante differenze, tra le quali quelle linguistiche non sono neanche le più significative.