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 2020  gennaio 12 Domenica calendario

Mata Hari alla Scala

Mata Hari arrivò a Milano per danzare alla Scala. Il direttore Tullio Serafin osservò: «Sa ciò che vuole e sa come ottenerlo». Giudizio lusinghiero, che non si trasformò in un vero contratto. Tuttavia le vere ragioni della presenza non sono state del tutto chiarite. Richard Skinner in Mata Hari. La femme fatale e i suoi amanti (Edizioni Excelsior 1881) ipotizza una relazione con Giovanni Pratesi, parente stretto del compositore Romualdo Marenco. Costui, coreografo, viaggiava sempre. A San Pietroburgo, a Berlino; a Parigi era di casa: e qui, agli inizi del ’900, furoreggia Mata Hari, giunta dalle Indie orientali olandesi, bella, divorziata e di larghe vedute morali. Tra i due scatta la scintilla e l’accorto Pratesi, per liberarla dagli ultimi veli, le promette una scrittura alla Scala; anzi crea il balletto Bacco e Gambrinus (cinque rappresentazioni dal 4 gennaio 1912), in cui prende le sembianze di Venere. È la vera ragione che portò Mata Hari a Milano alla fine del 1911? Se fu questa, allora è bene aggiungere che, per evitare pettegolezzi causati dall’andirivieni in albergo, Pratesi – abitante in via Senato – la sistema da un vicino: Filippo Tommaso Marinetti.
Il letterato ormai celebre, dopo che «Le Figaro» aveva ospitato il Manifesto del Futurismo nel febbraio 1909, era disponibile a tutto, immaginiamoci se avesse rifiutato Mata Hari (per restare tra spettacoli e musica, una sera del marzo 1915 in casa di Filippo Tommaso si ritroveranno Stravinskij, Djagilev e Prokof’ev). Marinetti in quel tempo era un vero agitatore d’idee e, tra l’altro, apprezzava gli anarchici, con i quali avrebbe desiderato dar vita a «un’alleanza strategica il cui fine era quello di abbattere la monarchia, le istituzioni della politica borghese e il potere clericale nel nostro Paese». Odiava il socialismo («astrazione filosofica senza possibilità di contatti vitali») e amava l’anarco-sindacalismo; soprattutto apprezzava gli anarchici individualisti, disprezzando al tempo stesso «i portavoce dell’anarchia pacifista e umanitaria».
Queste ultime citazioni sono state tratte dalla prefazione che Guido Andrea Pautasso ha scritto per la riedizione di un libro di Lorenzo Cenni dal titolo Aristocrazia operaia (uscito a Firenze nel 1914). Chi era costui? Un anarchico toscano, che ha diretto la rivista letteraria e operaista «La Blouse». Oltre quest’opera, fu autore di Cardi selvaggi (1908). Volumi stampati dalla tipografia Vallecchi, anche se l’editore non concesse ufficialmente il marchio, che attirarono l’attenzione dei futuristi e questi ne promossero la vendita. La vicenda di Cenni passa dunque da qui, anche se egli si avvicinò poi al Socialismo Rivoluzionario e s’incontrò con il primo Mussolini. Ma la storia si complica e chi volesse conoscere idee e mosse di questo singolare personaggio può leggere la settantina di pagine che Pautasso gli ha dedicato presentando Aristocrazia operaia.
Nell’opera si troveranno gli ispiratori di Cenni («Non ho prescelto a mio filosofo che il Machiavelli»), gli scopi che si è prefisso, la lotta contro il gioco e l’alcolismo («disprezzare gli ubbriachi abituali»), la denuncia per «l’odierna vacuità nella fratellanza e nella solidarietà», i contenuti internazionalisti e altro ancora. Un’appendice propone testi futuristi anarchici. Si va da un Elogio della prostituzione di Italo Tavolato («tu lo sai quanto le carni del mestiere siano più belle delle maritate polpettone») a Per un domani frenetico di Ugo Tommei («Occorre far sparire il broncio dalla faccia del mondo»). Non manca un Elogio della dinamite di Marinetti, dove si saluta con gioia «la miccia crepitante che vi libererà!».