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 2020  gennaio 12 Domenica calendario

La Galleria dei marmi dei principi Torlonia

Da collegare al cemento cinese


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Fra le molte imprese di una lunga vita il principe Alessandro Torlonia (1800-1886) poteva certo vantare la bonifica del Fucino, ma forse era ancor più fiero di aver fondato il Museo Torlonia di scultura antica, aperto nel 1875 e subito famoso per il numero e la qualità delle opere esposte. Lavorava a questo progetto dal 1860, quando prese in uso e poi comprò dai Corsini un vasto edificio in via della Lungara, dove statue e rilievi furono raccolti e poi allestiti in forma museale. Egli aveva ereditato molte sculture antiche come arredo delle vaste dimore di famiglia, ma ne accrebbe a dismisura il numero sia con scavi nelle sue proprietà sia acquistando in blocco la prestigiosa collezione Giustiniani (ante 1856) e poi la settecentesca Villa Albani (1866) con la sua folla di sculture, che recava, e reca ancora, l’impronta del gusto di Winckelmann. Il Museo Torlonia nasceva dunque a cavallo del fatale 1870, che segnò la fine del potere temporale dei Papi, l’annessione di Roma al Regno e la sua proclamazione a capitale (la resa dell’esercito pontificio dopo la breccia di Porta Pia fu firmata proprio a Villa Albani). E quando Vittorio Emanuele II prese possesso del Quirinale si ritrovò, nella sua capitale che era anche da secoli la principale fonte di arte antica in Europa, senza alcuna collezione archeologica, mentre un Papa senza regno restava padrone dei Musei Vaticani, e i Musei Capitolini erano (e sono) di pertinenza comunale. Anche per questo il Museo Torlonia fece sensazione in quegli anni ’70 dell’Ottocento romano. 
Il principe fondatore prese al suo servizio due membri della più accreditata famiglia di antiquari fra Sette e Ottocento, Pietro Ercole Visconti e il nipote Carlo Ludovico, e li incaricò di organizzare il Museo al passo con le più avanzate procedure del tempo. Le sale (quasi ottanta) furono strutturate, come già in Campidoglio e in Vaticano, per blocchi tematici: Muse, sarcofagi, animali..., e soprattutto un’amplissima serie di ritratti imperiali (o presunti tali), che, scrisse C.L. Visconti, «sorpassa e di numero e di bellezza le raccolte notissime del Vaticano e del Campidoglio». Il catalogo fu dapprima una svelta guida a 527 sculture (1876, sei edizioni fino al 1883, di cui una in francese e una in inglese). Ma il vero salto di qualità fu segnato nel 1884-5 dal sontuoso volume di grande formato (I monumenti del Museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con la fototipia), 161 tavole con le immagini di tutti i pezzi del Museo, intanto cresciuti fino a 620: primo esempio di catalogo museale interamente documentato dalla fotografia. Il volume di commento di C.L. Visconti fu pubblicato prima in francese e poi in italiano. Tante edizioni in così pochi anni, e anche in altre lingue, provano il successo non tanto del catalogo, ma del Museo. Il Catalogo 1885 esplicita le intenzioni del principe nel crearlo: «Una spesa continua e ingente, sostenuta con saldo proposito da chi poteva e volle dedicarla a raggiungere un grande scopo; l’acquisto, o totale o parziale, di alcune antiche ed insigni collezioni romane; l’opportunità (...) di fare nuovi e per lo innanzi non possibili acquisti; il prospero successo di escavazioni eseguite [nei] numerosi latifondi posseduti dal principe Torlonia; tal’è il complesso delle cause, che felicemente concorsero a rendere possibile la formazione di una tale raccolta, la quale non può non destar meraviglia in chiunque prenda per poco a considerarla nella sorprendente sua ampiezza».
Ultima collezione principesca di Roma, il Museo Torlonia è anche la più significativa per la storia degli scavi, del restauro, del gusto, della museografia, degli studi archeologici. Eppure questa raccolta di scultura antica, la più rappresentativa in mani private nella città che più ne è ricca, Roma, è stata per decenni anche la più nascosta: l’aspro contrasto fra la sua importanza e il suo segreto spiega la leggenda che l’accompagna e le aspettative che circondano il suo imminente uscire dall’ombra. Nel marzo 2016 infatti, grazie all’opera dell’allora Direttore generale all’Archeologia Gino Famiglietti e alla volontà del compianto principe Alessandro Torlonia (1925-2017), pronipote dell’omonimo fondatore, il ministro Franceschini e la Fondazione Torlonia (presieduta da Alessandro Poma Murialdo) hanno concordato la riapertura del Museo Torlonia in una nuova sede (da individuare): la mostra dei Marmi Torlonia, che aprirà a Roma il prossimo 3 aprile, è il primo passo in questa direzione. Voluta dalla Soprintendenza Speciale di Roma e organizzata da Electa, la mostra sarà ospitata a Villa Caffarelli sul Campidoglio, sulla base di un accordo con la Sovraintendenza Capitolina; a curarla saremo io stesso e Carlo Gasparri, che da molti anni studia le collezioni Torlonia; i restauri, curati dalla Fondazione Torlonia con l’aiuto di Bvlgari, sono diretti da Anna Maria Carruba; l’allestimento è curato dall’inglese David Chipperfield, il catalogo Electa è in corso di stampa.
Ma come organizzare una mostra che dia l’idea di una collezione tanto vasta e importante? Abbiamo scelto i 90 pezzi da esporre e costruito il percorso di visita a partire dal «saldo proposito» e «grande scopo» del fondatore, «l’acquisto di alcune antiche ed insigni collezioni romane»; e cioè considerando il Museo Torlonia come una collezione di collezioni. I nuclei più cospicui vengono da Palazzo Giustiniani (sec. XVII), da Villa Albani e dallo studio di Bartolomeo Cavaceppi (sec. XVIII), oltre che da scavi. Questi imponenti nuclei contengono a loro volta opere da collezioni più antiche, fin dal primo Cinquecento: sculture che furono Savelli, Orsini, Cesarini, Pio da Carpi, Cesi, Imperiali, Barberini. La mostra sarà dunque uno spaccato di storia del collezionismo, raccontato secondo un percorso a ritroso nel tempo. La Sezione I conterrà, affidata a una piccola folla di busti-ritratto, un’evocazione del Museo Torlonia verso il 1885. Di qui si passerà, nella Sezione II, a una scelta dei pezzi che vengono da scavi ottocenteschi (fra questi l’eccezionale rilievo con scena di porto, che nel restauro ha rivelato cospicue tracce di policromia). La Sezione III rappresenterà il Settecento con sculture Albani e Cavaceppi; nella IV Sezione si mostreranno scelti marmi di Vincenzo Giustiniani, il più sofisticato collezionista a Roma nel Seicento (fra questi un caprone – illustrato qui a lato con una spettacolare testa, interamente rifatta da Gianlorenzo Bernini in gara con l’antico). Infine, la V Sezione allineerà pezzi da collezioni cinquecentesche, enucleate, come in un gioco di scatole cinesi, all’interno delle raccolte successive. Fra questi, la Tazza con Simposio bacchico (figura nel tondo qui sotto) splendido testimone della storia del collezionismo: fino al tardo Quattrocento era a Santa Cecilia in Trastevere, nel Cinquecento fu nel famoso giardino del cardinal Cesi vicino a San Pietro, nel Settecento raggiunse Villa Albani, e di qui si mosse cent’anni dopo al Museo Torlonia. Combinata con un Sileno che vi versava l’acqua da un otre, fu trasformata in una fantasiosa fontana; in questa forma la disegnarono molti artisti, da Amico Aspertini a Rubens (la fontana verrà ricostruita in mostra). 
Questa narrazione a ritroso, dall’evocazione di un museo ottocentesco a collezioni del Cinquecento, a una chiesa medievale, è l’occasione imperdibile per evocare una storia capitale, ma dimenticata: quella della prima origine delle raccolte di antichità. 
Spesso dimentichiamo che per molti secoli migliaia di sculture giacquero abbandonate nelle rovine di Roma, finché nel Quattrocento cominciarono ad essere raccolte e trasportate nelle case: non solo quelle di aristocratici e cardinali, ma anche di speziali, notai, mercanti, che amavano chiamarsi «Romani naturali» e lo mostravano anche esibendo, sulle facciate delle loro case o nei cortili, qualche scultura del gran tempo antico. Le collezioni di primo Cinquecento dei Savelli o dei cardinali Cesi, Pio da Carpi, Cesarini (tutte rappresentate in mostra) nacquero entro questo orizzonte, innescando un processo che si snoderà fino alle grandi collezioni principesche e sovrane (a cominciare da quella del Papa), e di qui al museo-istituzione come oggi lo conosciamo. Un’idea, quella del museo, che può parerci ovvia, ma ha poco più di due secoli di vita, e nasce da due svolte decisive, entrambe targate Roma. La prima, una vera e propria rivoluzione, fu nel Quattrocento quel collezionismo incipiente e raccogliticcio di cui si è detto, di ispirazione più politica che estetica; e ad esso rispose il papa Sisto IV con un gesto altrettanto politico. Nel 1471, dice una sensazionale iscrizione ancora conservata in Campidoglio, egli donò, anzi «restituì e assegnò in perpetuo al popolo romano dal cui seno erano sorte» le sculture bronzee raccolte al Laterano (fra le altre, la Lupa romana), «testimonianza perenne di eccellenza e di valore». La seconda svolta fu la creazione del primo museo pubblico del mondo, i Musei Capitolini, fondati nel 1734 da Clemente XII, che aveva certo in mente l’antefatto del suo predecessore Sisto IV.
Roma contiene dunque in sé i momenti generativi di una lunga storia, che da sparse e disordinate raccolte di frammenti scultorei si snoda fino ai musei del nostro tempo. I marmi Torlonia consentono di mostrarne uno spaccato rappresentativo, ma non basta. La sede della mostra, Villa Caffarelli in Campidoglio, consente, grazie alla collaborazione dei Musei Capitolini, un vero colpo di scena: dall’ultima sezione (collezioni XV-XVI secolo) i visitatori potranno entrare nell’esedra del Marco Aurelio, e vi troveranno raccolti i bronzi della donazione di Sisto IV. Dal privato Museo Torlonia a fine Ottocento all’indietro fino al primo seme della stessa idea di una raccolta d’arte a destinazione pubblica: questo percorso attraverso la storia culturale, artistica e politica di Roma e d’Europa sarà il filo conduttore del racconto della mostra. Un racconto nutrito di emozioni, quelle che le sculture esposte trasmetteranno, una per una, ai visitatori, ma anche un percorso conoscitivo, che in questa storia culturale di lungo periodo (all’indietro, fino ai bronzi “di Sisto IV”) riconoscerà messaggi e valori che hanno ancor oggi qualcosa da dirci.