La Stampa, 12 gennaio 2020
Intervista all’architetto Jean Nouvel
Jean Nouvel è un architetto e designer francese con una lunga carriera alle spalle. «Ho creato la mia agenzia, in maniera un po’ irragionevole, a 25 anni. Era il 1970».
Chi è stato il suo maestro?
«Claude Parent, con cui ho lavorato. Era un architetto utopista che, con Paul Virilio, ha inventato la funzione obliqua, e cioè l’idea che si possa creare una vera categoria architettonica basata sulla continuità dello spazio, senza rotture. Si passa da un piano all’altro attraverso delle pendenze. Con l’aiuto di Virilio, Parent concepì la chiesa di Sainte-Bernadette a Nevers, una sorta di architettura da bunker. Parent era il re del cemento. Sono rimasto cinque anni da lui ed è stata la mia vera formazione. In precedenza avevo studiato alle Belle Arti di Parigi, vi ero entrato nel 1963. Era la grande epoca dello stile internazionale. E anche lì ci davano da fare progetti che non erano mai situati in un contesto. Per me fu traumatizzante, perché ho sempre pensato che l’architettura fosse legata a un luogo».
In che senso?
«A una situazione geografica e tipologica, ma anche a una cultura e a una memoria. L’architettura è la testimonianza di un’epoca, che bisogna inventare ogni volta in relazione a quei parametri».
Il Bauhaus è stato la negazione di questo?
«Sì, è stato l’inizio della negazione di quella prospettiva. Ma lo fece anche Le Corbusier. Basti pensare al piano Voisin che concepì per il centro di Parigi, dove prevedeva di demolire metà città accanto a Notre-Dame e costruire una sfilza di torri e palazzoni. Le Corbusier è stato un architetto straordinario in quanto creatore di edifici, un grande «scultore». Ma sul piano teorico, quel piano non possiamo che criticarlo».
Che cosa caratterizza i suoi maggiori progetti? Soprattutto a Parigi?
«Sono architetture fatte per stare in quel determinato luogo, come l’Istituto del mondo arabo. È un gioco di geometrie e di luci che non si può spostare di 10 cm. Prolunga i palazzi che ci sono intorno, le altezze corrispondono. È un omaggio alla cultura araba ma anche un edificio parigino».
I suoi edifici corrispondono a determinate epoche?
«No, non sono mai stato un "architetto alla moda"».
Quando considera riuscito un progetto?
«Quando è stato fatto per essere in quel determinato posto e non si può spostare. Io ogni volta cerco di giocare con i desideri di un programma culturale o di una persona e con tutti gli elementi del sito. Poi anche il contrasto ha un effetto molto forte. Il Centro congressi di Lucerna, ad esempio, è come una lama rispetto alle montagne, è un contrasto totale».
L’Istituto del mondo arabo, la Fondazione Cartier e il quai Branly sono forse le sue creazioni più significative a Parigi. Che elementi hanno in comune?
«Non ce ne sono. Sono stati costruiti in una decina d’anni, sono praticamente della stessa epoca, ma non ne hanno. A Shanghai ho curato un’esposizione sulla mia opera e l’ho intitolata "L’appartenenza", perché tutte le mie architetture appartengono a un luogo, a un’epoca, alle persone che le hanno volute. Il dramma dell’architettura di oggi è la clonazione, la ripetizione ovunque degli stessi edifici. Io mi sento vicino a un regista come Stanley Kubrick. Se uno non lo sa, non indovina che un film che sta vedendo è suo».
A cosa pensa quando disegna uno dei suoi progetti?
«L’architettura è fatta per dare piacere. È l’arte più vicina alla popolazione. Ma la cosa più ridicola oggi nei concorsi di architettura è che si è giudicati sulle uscite di emergenza, sulla sicurezza. Invece la sola domanda che conta è: qual è l’anima di quello che vuoi creare? Che cosa darai alle persone che ci vivranno dentro?».
Quali sono gli architetti che la interessano di più?
«Nella maggior parte dei casi sono diventati anche amici, come Richard Rogers, Renzo Piano, Peter Zumthor, Jacques Herzog. Sono molto eclettico. E personalmente credo nell’architettura sentimentale. Se una cosa non mi piace, non la faccio».
Come le vengono le idee?
«Dopo che ho riunito tutti gli elementi che mi permettono una sintesi m’infilo nel mio letto, mi metto una mascherina, i tappi per le orecchie. Resto nel silenzio e nell’oscurità. E aspetto. A un certo momento scatta qualcosa».
Lei ha anche disegnato diversi grattacieli. Uno dei più originali?
«Il One Central Park a Sydney. Era un programma grosso, con un centro commerciale e tanti alloggi in un sito che in effetti era un parco. Mi rimproveravano il fatto che fosse un edificio troppo massiccio e che facesse ombra al parco. Io ho detto: "Posso mettervi il sole nell’ombra". Ho inventato un piccolo eliostato che rinvia i raggi solari mediante specchi che si possono orientare e una piscina sotto. Quando il sole arriva, rimbalza sugli specchi e si ritrova la luce nell’ombra del parco».
Sogni nel cassetto?
«Ho costruito e disegnato tanti edifici. Ma non sono sicuro che siano stati realizzati i miei migliori progetti».
Un progetto non realizzato per cui prova dispiacere?
«Un grattacielo, la Tour sans fins, nel quartiere parigino della Défense. Doveva ergersi per 425 metri, da un cratere a terra, e smaterializzarsi a poco a poco mediante diversi colori e materiali, fino a culminare in un cilindro di vetro, che non si vedeva scomparire nel cielo: una torre senza fine. Ci ho lavorato tre anni. Ma poi hanno annullato il progetto».
Traduzione di Leonardo Martinelli