Libero, 12 gennaio 2020
L’amore segreto di Joyce per una “mula”
È stato Nietzsche a insegnarci che le biografie dei grandi uomini sono non meno importanti delle loro opere. Ma si può dire che di tale indicazione abbiamo abusato: a cominciare dalla vita del filosofo tedesco, che è stata sviscerata in ogni aspetto, e soprattutto nei suoi rapporti con le donne: la madre, la sorella, l’amata Lou Andreas-Salomé che doveva fare da vertice al triangolo con l’amico Paul Rée, e soprattutto Cosima Liszt, coniugata Wagner, che fu, forse, la donna che desiderò di più. Sempre nello stesso campo delle donne amate dai grandi, adesso un articolo sul Venerdì di Repubblica rilancia il “caso” di un amore giovanile di James Joyce, per via di un personaggio che appare nel pometto Giacomo Joyce scritto a Trieste nel 1907, quando l’autore di Ulysses aveva venticinque anni, e pubblicato postumo nel 1968. Che importanza avrà mai sapere quale donna reale si nasconde dietro la conturbante “dark lady” che appare nell’operina, descritta come allieva privata d’inglese di “Giacomo”, una delle tante giovani della buona società triestina che fungevano da complemento al magro stipendio che Joyce ricavava dalle lezioni alla Berlitz School di Trieste (un sostegno molto maggiore gli veniva dalla sua abilità nell’ottenere prestiti)? Eppure questa domanda mette in libidinosa fibrillazione gli studiosi di Joyce, ognuno convinto, naturalmente senza lo straccio di una prova conclusiva, che la giovane amata del venticinquenne “Giacomo” – amata invano, perché nel poemetto quest’ultimo risulta vittima e la donna carnefice – sia proprio quella che dicono loro. Ecco così sfilare Amalia Popper, figlia di un ricco commerciante ebreo, traduttrice e prima biografa di Joyce; secondo l’illustre critico Richard Ellmann, è Amalia la dedicataria del pometto, nonché l’ispiratrice del ben più riuscito e celebre personaggio di Molly Bloom in Ulysses. ricca e altera Poiché “Giacomo”, come detto, viene seccamente respinto, c’è stato anche chi ha suggerito che, scrivendo il libricino, il giovane e squattrinato Joyce abbia voluto vendicarsi della ricca e altera Amalia. Ma poiché Ellmann, a sostegno della sua identificazione, non fornisce altro che congetture, l’americano Erik Schneider, fondatore del Museo Joyce di Trieste, si dice poco convinto e propone un’altra identificazione: la seducente fanciulla di “Giacomo Joyce”, e dunque del giovane Joyce nel suo periodo triestino (che è anche il tempo della cruciale amicizia con un altro suo allievo d’inglese, Ettore Schmitz, cioè Italo Svevo) è tale Beatrice Richetti detta Bice, figlia di un noto avvocato e industriale triestino, esponente di primo piano della comunità ebraica cittadina. Beatrice, poco prima dello scoppio della Grande Guerra, sposerà l’inglese Henry Victor Randegger, circostanza che non spezzerà tuttavia i rapporti con Joyce. Quali prove porta Schneider per giustificare l’identificazione della fanciulla di “Giacomo Joyce” con Bice? Semplicemente la circostanza che alcune delle prime opere dello scrittore irlandese le sono dedicate, come le poesie di “Chamber Music” (Musica da camera) uscite nel 1907, dove nella dedica, firmata nel 1911, Joyce sbaglia il cognome della presunta musa scrivendo “Ricchetti”. O, più tardi, anche una copia della prima edizione di Dubliners (Gente di Dublino) dove Joyce scrive: «To Beatrice Randegger – James Joyce – Trieste 19 giugno 1914». Dunque che vi fosse un’affettuosa conoscenza tra James e Bice è certo, ma è sufficiente per dimostrare che la misteriosa protagonista dell’idillio giovanile sia quest’ultima? Ciò che più si avvicina a una prova è che Schneider avrebbe scoperto che Bice Richetti venne operata di appendicite, dettaglio che torna nel poemetto. Anche se poi è lo stesso studioso che modera i suoi entusiasmi e, ben più saggiamente, dichiara che con ogni probabilità la seducente fanciulla di “Giacomo Joyce” non è altro che un miscuglio di tante donne, di tanti stimoli, di tanti dettagli pescati in questa o quella conoscenza reale, così come fanno tutti gli scrittori. Solo i pedanti e gli ingenui pensano che a un personaggio romanzesco corrisponda invariabilmente un’unica persona nella vita reale, e che la “musa” sia una e una sola, come una divinità gelosa. In realtà l’immaginazione poetica funziona in modo molto più anarchico e libertino, e crea sintesi, come nei sogni, di tante figure, di tante persone, modellando una nuova creatura che, con la realtà di partenza, non ha più alcun punto di contatto. La Beatrice di Dante non è Beatrice Portinari. La “dark lady” che appare nei sonetti di Shakespeare, e che ha sguinzagliato i segugi letterari in una caccia all’identificazione tra le più disperate, non era più reale di Desdemona o di Lady Macbeth. E anche se è vero che colei che Beethoven chiamò “l’amata immortale” era probabilmente una persona specifica, conoscerne l’identità non ci fa comprendere di più la grandezza di una sua sinfonia o di una sonata. E così, anche per la fanciulla descritta tra le poche pagine di “Giacomo Joyce”, è inutile accanirsi presentando la lista intera delle allieve d’inglese di Joyce a Trieste, come è stato fatto. Di fronte a James Joyce, il vero mistero, che richiede una vera indagine, è quello posto dal suo linguaggio, non dai suoi spasimi amorosi.