Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 12 Domenica calendario

Per i burocrati la trasparenza è voyeurismo

«Il buon senso prevale sul voyeurismo». Così esultano online, come si trattasse di giarrettiere, tanti dirigenti pubblici. La leggina infilata nel Milleproroghe svuota anni di impegni alla trasparenza, sfila il tema all’Anac, riporta le lancette all’indietro.
N essuna sorpresa. «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione», scriveva Max Weber oltre un secolo fa, «mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Nonché i redditi, si capisce. E non è un caso se per decenni, anche dopo la proposta di pubblicare gli emolumenti dei dirigenti pubblici lanciata nel ‘97 dal diessino Cesare Salvi e plaudita dal destrorso Francesco Storace, nessuno ci provò mai davvero prima di Renato Brunetta. Il quale battezzando l’«Operazione Trasparenza» esaltò nel 2009 i ministri che per primi avevano aderito facendo del bene «non solo al governo ma al Paese». 
Il governo di Mario Monti fece un passo in più. E dopo aver messo on-line i redditi e anche le proprietà dei suoi ministri, confidò di volere «sottoporre a qualcosa di analogo» pure gli alti dirigenti amministrativi. Era il febbraio del 2012. Da quel momento, però, il percorso è stato sempre più accidentato. Al punto che quando il «decreto trasparenza» firmato da Marianna Madia fu finalmente varato nel maggio 2016 lo stesso Brunetta vi trovò addirittura «dei passi indietro».
Critica giusta? Certo è che il decreto era monco. Mancavano le linee guida sull’applicazione delle nuove regole: valevano solo per i manager apicali del mondo pubblico o per tutti? Centinaia o decine di migliaia di dirigenti? Erano previste eccezioni? I medici primari erano compresi? E la privacy? A occuparsene fu delegata, non casualmente, l’Anac di Raffaele Cantone. Tempi? Meglio prima che dopo. 
Fatto sta che a un certo punto la platea dei possibili «obiettivi» del monitoraggio dell’Anticorruzione, a ragione o torto, sembrò allargarsi e allargarsi ancora fino a tirare in mezzo, forse, chissà, centoquaranta mila pubblici dirigenti e funzionari. Una marea. Di giorno in giorno più inquieta: «Ricorriamo al Tar!» Ma su cosa: sulle voci? Finché il segretario generale dell’Authority per la Privacy, mettendo le mani avanti (con sospetta solerzia, diranno gli avversari...) invitò un po’ tutti i suoi a preparare i documenti per una richiesta di dettagli patrimoniali da mettere eventualmente a disposizione nel caso fossero richiesti. Il tempo che la richiesta venisse scodellata e partivano i primi ricorsi al Tar. 
Coincidenza: le linee guida dell’Anticorruzione (pare restrittive rispetto all’allarme generale) erano ormai previste per l’8 marzo. Ma sei giorni prima, il 2 marzo, ecco arrivare la decisione dei giudici amministrativi: prima di decidere, meglio fare subito una sospensiva. Che diede il tempo ad altri aspiranti ricorrenti di presentare al Tar nuovi esposti, appelli, contestazioni. 
Risultato: preso in contropiede, Raffaele Cantone restò impantanato. Peggio, sulla testa sua e dei sostenitori della necessità di combattere la corruzione con la massima trasparenza, piombò un mattone inaspettato. Palazzo Chigi, che con Monti prima e Renzi poi aveva spinto per le nuove regole indigeste a tanta parte della nostra burocrazia, ricevette infatti dall’Anac una domanda precisa: la Presidenza del consiglio aveva intenzione o no di ricorrere contro la sospensiva decisa dal Tar? La risposta fu una secchiata d’acqua gelida: su consiglio degli avvocati, che temevano l’ipotesi di chissà quanti futuri risarcimenti, meglio lasciar perdere e «non rimuovere gli effetti della sospensiva concessa».
Deluso, il presidente dell’Anticorruzione non ebbe scelta: andava tutto congelato. Anzi, da quel momento la controffensiva di quanti erano ostili alle nuove norme accelerò. Basti ricordare la lettera al Corriere con cui Giuseppe Busia, il segretario generale della Privacy, spiegò che era meglio così. Che una scadenza per le linee guida in realtà c’era ma era stata fatta slittare dall’Anac. E che lui stesso, pur avendo il dovere di rispettare le leggi, compreso l’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti sul web, confessava «a titolo strettamente personale di non condividerlo».
Ma era solo l’inizio della rivolta contro quelli che molti bollano come «eccessi di trasparenza». Eccessi in parte riconosciuti nel febbraio scorso dalla stessa Corte Costituzionale che tuttavia, ricordava giorni fa lo stesso Cantone in una lettera a Repubblica, «ha parzialmente dichiarato l’ incostituzionalità della norma del 2016, relativamente però ai soli dirigenti che non svolgono ruoli di primo piano». Per capirci: la Consulta diceva solo che un pubblico monitoraggio a tappeto di tutti i dirigenti non ha senso. Ma che il principio, in sé, su una platea più ristretta, era e resta positivo. D’altra parte, come dimenticare gli arricchimenti spropositati di burocrati d’oro come Duilio Poggiolini o Angelo Balducci? Certo, probabilmente non si sarebbero fermati davanti alla minaccia di pubblicazione delle loro proprietà. Avrebbero trovato altre strade e via...
Fatto sta che dopo varie retromarce sulla trasparenza a dispetto degli antichi proclami di Beppe Grillo contro i burocrati («Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia...») quella leggina infilata nel Milleproroghe dice tutto. Dopo dieci mesi di paralisi, prima giallo-verde e poi giallo-rossa il Parlamento ha deciso infatti di togliere la trasparenza all’Anticorruzione, di sospendere le sanzioni previste per chi avesse violato le regole esistenti sui redditi on-line (ciao ciao, legge Brunetta...), di dare un anno di tempo al ministro della Funzione Pubblica per rivedere tutto. Con quale spirito, in un paese dove la classe politica è sempre più debole e quella burocratica sempre più forte, è facile immaginare… 
L’aspetto più divertente, però, al di là dei commenti sul «voyeurismo» di chi invoca la trasparenza (chissà cosa diranno delle leggi inglesi che costrinsero David Cameron a dichiarare d’aver ricevuto in dono un po’ di lezioni d’un «personal trainer»...) è che alla vigilia di Natale, cinque giorni prima di votare quel Milleproroghe che preannunciava la sostanziale abolizione dell’obbligo di pubblicare i propri redditi, il Parlamento aveva votato nella Legge di Bilancio un comma 63 che prevedeva un taglio dal 30 al 60 % dell’indennità di risultato per chi non comunicava quei dati... Per dirla con Matteo, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra...