Corriere della Sera, 12 gennaio 2020
Ma sono ancora guerre per il petrolio?
Donald Trump è stato chiaro un paio di giorni fa: «Siamo il produttore numero uno di petrolio e gas naturale, siamo indipendenti e non abbiamo bisogno del petrolio del Medio Oriente». Ma è proprio così? Il duro confronto nel Golfo Persico è ancora, o non lo è più, uno scontro per il petrolio? La risposta non può essere univoca. Un esperto ed ex oilman come Massimo Nicolazzi, ad esempio, definisce il confronto in atto «più come una guerra per la rendita petrolifera che per la materia prima». Ovvero più una lotta per le entrate dalla vendita del petrolio, indispensabili per la stabilità dei Paesi produttori e dei regimi coinvolti, che per le necessità delle economie occidentali.
Va detto che sulla quasi indipendenza degli Usa dal petrolio mediorientale il presidente ha ragione. I numeri parlano chiaro: nel 2018 gli Stati Uniti hanno consolidato la posizione di primo produttore mondiale di greggio con 17,7 milioni di barili al giorno, parecchio davanti ad Arabia Saudita e Russia. Sono da tempo tornati superpotenza anche nell’energia, come lo erano stati a lungo nel secondo dopoguerra. Non solo nel petrolio, ma anche nel gas naturale, l’idrocarburo gemello la cui produzione interna copre ormai tutto il consumo.
Insomma, i tempi della dipendenza dalle importazioni che hanno angosciato per anni i presidenti da Richard Nixon in poi sono finiti. Tutto grazie alla rivoluzione tecnologica del «fracking», un particolare modo di estrarre petrolio e gas che comporta la necessità di avere conoscenze tecniche e impianti in numero tale che solo gli Stati Uniti possono permetterselo a un così alto livello.
Dalla guerra del Kippur fino agli anni Duemila, invece, lo scontro è stato effettivamente per il petrolio: per coprire i consumi, nel 1973-74 gli Usa dovevano importare almeno 6 milioni di barili al giorno. Così è stato anche nel 1979, con la rivoluzione iraniana e via via fino al 1991 con la prima guerra del Golfo di Bush padre. Il punto massimo di dipendenza l’America l’ha raggiunto nel 2005: più del 60% del greggio che serviva a economia e trasporti (12,5 milioni di barili) proveniva dall’estero. Il che contribuisce a spiegare anche la seconda guerra del Golfo di Bush figlio, nel 2003. Poi, all’improvviso, è arrivata la rivoluzione dello «shale oil» e dello «shale gas» e le cose sono cambiate nel senso spiegato dall’attuale inquilino della Casa Bianca.
Ma anche così il Medio Oriente resta cruciale: dal collo di bottiglia di Hormuz transita ogni giorno un quinto del petrolio mondiale (21 milioni di barili al giorno), un terzo di quello commerciato via nave. Solo che, rispetto al passato, si dirige principalmente verso l’Asia. Tre milioni di barili al giorno verso la Cina, poco meno in direzione rispettivamente di India, Giappone, Corea del Sud, e poi Singapore e gli altri. Dal Golfo gli Usa importavano nel 2018 circa un milione e mezzo di barili, tra Arabia e Iraq. Cifra considerevole (oltre quanto serva all’Italia ogni giorno) ma abbastanza facilmente rintracciabile sui mercati mondiali. Sul pianeta da tempo c’è abbondanza di petrolio.
Però, come ci si può immaginare, la situazione non si risolve così facilmente. Intanto perché un’interruzione di taglia elevata delle forniture di petrolio potrebbe cambiare lo scenario corrente. Con una «disruption» catastrofica – la sparizione dal mercato di un colosso come potrebbe essere l’Arabia Saudita – muterebbe radicalmente la prospettiva. Ipotesi inverosimile, certo, anche se l’attacco con i droni dello scorso settembre alle raffinerie saudite di Abqaiq e Khurais ha tolto dal mercato circa la metà dell’output saudita per più di un mese. E un escalation del conflitto potrebbe condurre a risultati imprevedibili.
Bisogna poi considerare – l’attacco alle raffinerie saudite lo ha mostrato in modo evidente – che ad essere fondamentali in questo gioco sono le infrastrutture. Le economie non usano il petrolio, ma i prodotti petroliferi che escono dalle raffinerie. Ed ognuna di esse per funzionare al meglio ha bisogno di una certa qualità di petrolio e non di un’altra (ciò che tra l’altro spiega anche perché con la crisi libica il remoto Azerbaigian è diventato il primo fornitore di petrolio per l’Italia: qualità simili di petrolio).
Insomma, a meno di un potente colpo inferto a uno o più dei maggiori produttori mondiali, come Arabia e Iraq, l’offerta potrebbe continuare a coprire la domanda. Ma la competizione sulle qualità di greggio che potrebbero venire meno, come quelle in uscita da Hormuz e dirette in Asia, potrebbe comunque creare forti tensioni sui prezzi. Pagate non solo dagli automobilisti-elettori Usa ma anche da chi come l’Europa (Germania, Italia, Spagna, Olanda sono tra i primi dieci importatori mondiali) è ancora molto esposto sul petrolio dall’estero.
Tutte evoluzioni possibili. Nello scenario corrente, però, lo scontro in atto si dimostra forse più critico per i Paesi produttori come Arabia Saudita e Iran piuttosto che per quelli occidentali. La guerra per la rendita petrolifera che il greggio garantisce può diventare più importante. Ne sa qualcosa soprattutto l’Iran: la politica Usa di «massima pressione» ha messo in ginocchio la Repubblica islamica, che non può più fare conto sugli incassi per coprire il proprio budget statale e preservare la stabilità interna e la pace sociale. Mentre nel 2018 ha ricavato 67 miliardi di dollari dalle vendite di petrolio, nel periodo gennaio-luglio 2019 il conto è sceso a 19 miliardi e c’è da dubitare che da allora la cifra sia cresciuta di molto. Secondo l’agenzia Usa per l’energia le entrate Opec sono state di 711 miliardi di dollari nel 2018, scenderanno a 609 miliardi nel 2019 e a 580 miliardi nel 2020. La neo-guerra del petrolio costa cara a tutti. E non conviene mettere nessuno con le spalle al muro.