Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 11 Sabato calendario

Biografia di Andrea De Carlo raccontata da lui stesso

Andrea De Carlo è un uomo maturo che invecchia bene. Disciplina con attenzione le sue uscite pubbliche, di solito in prossimità di un nuovo romanzo. Ora di nuovo c’è un vecchio romanzo apparso trent’anni fa: Due di due, ripubblicato alla fine dello scorso anno dalla Nave di Teseo. Un romanzo, si sarebbe detto una volta, generazionale: un po’ Giovane Holden e un po’ Porci con le ali. L’ultimo nostro incontro professionale risale a circa dieci anni fa quando uscì Villa Metaphora, un romanzo ambiziosissimo, fluviale nel quale si raccontava una storia di sfacelo, con 14 punti di vista e sette lingue di cui una inventata: «Fu una bella sfida. Il romanzo vendette centomila copie. Scriverlo mi ha appassionato come poche altre volte».
Come sei cambiato in questo decennio?
«È cambiato il mondo ma io ho continuato a scrivere, pensare, leggere, osservare, viaggiare. In poche parole ho continuato a vivere».
Non sembri uno che interviene pubblicamente, però sei molto legato al tuo pubblico. Una sera ho visto annunciato un tuo spettacolo di canzoni e musica. E mi sono detto: ma che fa, cambia mestiere?
«Che c’è di strano? La musica fa parte della mia vita, suonare la chitarra o il mandolino è la prima cosa che faccio ogni mattina e nelle pause della scrittura. Quando facevo molti incontri a volte mi divertiva condividere questa passione, anche per tenermi il più lontano possibile dalla liturgia delle presentazioni tradizionali».
Chi pensi siano i tuoi lettori?
«Li chiamerei compagni di viaggio. Quando ho scritto Due di due, trent’anni fa, ero convinto che l’avrebbe letto solo chi aveva seguito gli stessi percorsi dei due protagonisti. Invece tra tutti i miei romanzi è quello che ha avuto il maggior seguito e continua ad averne. Non è solo una questione di numeri: è il grado di partecipazione con cui viene letto».
I due protagonisti sono appena usciti dall’adolescenza. Oggi, magari, si sballerebbero il sabato sera o entrerebbero in qualche statistica drammatica. Guido e Mario appartengono a quella fase aurorale degli anni Settanta, dove tutto sembrava possibile e dove trent’anni dopo tutto si imputtana.
«A giudicare dalle reazioni dei lettori più giovani che continuano a identificarsi in Guido e Mario, la loro innocenza libertaria e utopistica non è sparita. Come allora, riguarda una piccola minoranza di pensatori liberi, però esiste».
C’è un’innocenza dello scrittore?
«Sì, ma è un’innocenza fragile, che va difesa con ostinazione dal contagio del mestiere, dell’astuzia, dell’ambiguità».
A quali impulsi rispondono le tue storie?
«Al bisogno di staccarmi dal mondo di ogni giorno e osservarlo dal di fuori, ricostruire percorsi, capire trasformazioni, andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio».
Quindi c’è un punto di vista superiore di cui lo scrittore ha il privilegio?
«Superiore no, diverso sicuramente».
Cosa comporta, sul piano mentale, scrivere romanzi?
«Anzitutto richiede una intensa disciplina quotidiana e la capacità, a volte dolorosa, di isolarsi, di vivere in una dimensione che attinge alla vita reale ma ne è anche separata».
In una parola autoescludersi?
«Più o meno quello che mi accadde con Due di due. Fin dalla prima riga il romanzo partì veloce e fluido. Idee chiare e distinte. Poi improvvisamente si affacciò il sospetto che tutto quello che avevo scritto fosse troppo diretto, immediato, senza filtri. Mi sono sentito stupido, sentimentale. Imbarazzato per quella adolescenza che mettevo in piazza e che era stata solo mia».
A quel punto?
«Mi sono fermato. Ho pensato ad altro. Scritto cose diverse e nuove. Per lungo tempo Guido e Mario sono usciti dalla mia vita. Ma loro non si erano dimenticati di me. Sono ricomparsi due anni dopo e a quel punto ho ripreso in mano ciò che avevo interrotto».
Cosa ti ha spinto a farlo?
«Era come se la mia vita dovesse fare i conti con quell’adolescenza che avevo richiuso in uno scrigno o in una gabbia. E ho continuato a vivere dentro quel racconto come fossi in un mondo parallelo. Fino alla fine».
Il “due” è un principio di separazione, di divisione, perfino una forma di schizofrenia.
«Credo che in ognuno di noi convivano parti contrastanti e contraddittorie e il nostro modo d’essere sia un continuo gioco di equilibrio tra prudenza e azzardo, paura e coraggio, ricerca della familiarità e bisogno di avventura».
Come definiresti il tuo umore: stabile, irrequieto, contraddittorio?
«Non c’è aspetto che indichi che non mi appartenga».
Parlavi dell’adolescenza. La tua come è stata?
«Non provo la minima nostalgia per la mia adolescenza».
Di solito è attraversata da timori e ossessioni, aspettative e speranze.
«Nella mia, la sensazione prevalente è stata di essere ostaggio della famiglia, della scuola, di un mondo che non mi piaceva. Ma avevo sogni selvaggi, alimentati dai libri che leggevo e poi dalla musica rock, quando è arrivata».
Che rapporti hai avuto con tuo padre e tua madre?
«Erano due persone interessanti e per nulla convenzionali con cui non era facilissimo avere a che fare. Prigioniere del disincanto o delle illusioni perdute. Avevano vissuto entrambi un’infanzia da orfani, rischiato la vita nella Resistenza, sognato un’Italia diversa che non si era mai materializzata».
Avevano la solidità del nucleo borghese. È stato più un vantaggio o un problema?
«È stato certamente un vantaggio crescere in una casa piena di libri, in cui si parlava di letteratura, pittura, musica, politica e società in modo critico e mai conformista».
C’è stato a dicembre il centenario della nascita di tuo padre con le relative celebrazioni per il ruolo che Giancarlo De Carlo ha avuto come architetto. Come lo hai vissuto?
«Ovviamente mi ha fatto piacere che il suo lavoro di architetto e urbanista non sia stato dimenticato. Confesso però che non me ne sono mai occupato a fondo. È mia sorella Anna che ha raccolto i suoi scritti e si è occupata delle varie iniziative per il centenario».
Cosa pensava delle tue ambizioni di scrittore?
«Ne era curioso. È singolare che la nostra comunicazione si sia evoluta da quando cominciarono a uscire i miei primi romanzi».
Sia tu che Tondelli, Del Giudice, Busi esordite negli anni Ottanta. Pur nella diversità degli stili e delle intenzioni letterarie che cosa avevate in comune?
«Scrivevamo romanzi dopo una generazione di scrittori che, con qualche eccezione, aveva considerato quella forma narrativa esaurita. Avevamo stili e riferimenti diversi, però condividevamo la voglia di raccontare noi stessi e il mondo. Ma non ho mai creduto a movimenti o manifesti collettivi di scrittori, per me lo scrittore è sempre un cane solitario».
Hai spesso parlato delle influenze americane. Chi sono gli autori che hai amato?
«Tra gli americani Scott Fitzgerald, Hemingway, Fante, Kerouac. Ma poi in ordine sparso per epoca e geografia: Stevenson, Verne, Dumas, Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Dickens, Flaubert, Maupassant, Kafka. Come vedi l’elenco è lungo e potrei continuare».
Sei uno scrittore poco stanziale. Hai girato il mondo e vissuto per certi periodi fuori. Non sei mai stato tentato dal trasferirti definitivamente in un altro luogo?
«Sono partito per gli Stati Uniti la prima volta a ventitré anni, con l’intenzione di emigrare per sempre. Avevo bisogno di andarmene dall’Italia che misembrava un paese stanco e prigioniero dei suoi limiti, senza risorse per una persona giovane. Più o meno le stesse cose che un giovane prova oggi. Con lo stesso spirito sono andato in Australia un paio d’anni più tardi e da lì nuovamente negli Usa. Poi ho scritto Treno di panna e sono tornato in Italia per provare a pubblicarlo».
Quel tuo esordio fu contrastato. Natalia Ginzburg lo ritenne inadatto e lo respinse. Italo Calvino lo riammise. Come andò la cosa?
«Nel modo in cui l’hai riassunta. Natalia Ginzburg lo lesse per prima e mi scrisse per dire che lo trovava interessante ma che il mio protagonista era troppo cinico. La ringraziai per avermi almeno risposto. Poco dopo lo lesse Calvino a cui piacque e che decise di farlo pubblicare. Fu un incontro fortunato, senza il quale probabilmente non avrei più scritto e avrei preso chissà quale altra strada».
Cosa ha rappresentato Calvino per te?
«Un saldo punto di riferimento. Continuo a considerare il suo stile una risorsa di straordinaria qualità e mi piace il suo spirito ironico e musicale».
La tua vita di scrittore è stata anche segnata dai rapporti con alcuni dei nostri grandi registi.
Soprattutto Fellini e Antonioni. A un certo punto Fellini si incuriosì di te.
«Aveva letto Uccelli da gabbia e da voliera e gli era piaciuto. Pensava che avessi un occhio cinematografico e mi volle come assistente in E la nave va. Poi ci fu un progetto che lui vagheggiava da tempo, ossia un film su Carlos Castaneda. Andammo a Los Angeles, ma poi del film non se ne fece niente».
Quest’anno è l’anno del centenario della sua nascita. Come lo rivivi oggi?
«Fellini era un grande regista, un fenomenale affabulatore e una persona estremamente interessante, ed era anche un vampiro che attingeva energia da chi entrava nella sua orbita, finché se ne stancava. Anche se aveva l’età di mio padre siamo stati molto amici, però avevo capito dall’inizio che a un certo punto avrei dovuto staccarmi da lui e riprendere la mia strada, sottrarmi alla sua influenza».
Castaneda lo hai poi conosciuto?
«Lo vidi a Los Angeles insieme a Fellini. Era un ometto con capelli folti, tinti di nero corvino. Dinamico, curioso, impaziente. Guidava un maggiolino Volkswagen bianco, camminava con un bastoncino che chiamava powerstick. Era scortato da due discepole che lo adoravano e gli facevano da intermediarie nei rapporti col mondo».
C’è un rapporto tra lo sciamano e lo scrittore?
«Forse c’è qualcosa di sciamanico nella capacità di un romanziere di abbandonare il proprio sé e diventare i personaggi che racconta».
Quando hai seriamente pensato di diventare scrittore?
«Ho iniziato a scrivere al liceo. Ma è stato solo dopo aver riempito centinaia di pagine — tra lettere, diari e romanzi completi mai pubblicati — che conTreno di panna ho pensato di aver trovato una mia voce».
Hai mai pensato di smettere di scrivere?
«Lo penso ogni volta che finisco di scrivere un romanzo. Non do mai per scontato che ce ne sarà un altro».
In “Due di due” Guido Laremi muore, Mario brucia la sua casa. Cosa sono per te la distruzione e la morte?
«Le due cose non coincidono necessariamente. Però la morte potrebbe essere un passaggio da una dimensione a un’altra».
Ne hai paura?
«Della distruzione sì; della morte non so».
Temi di invecchiare?
«No, al massimo di invecchiare male».
Hai figli?
«Una figlia, da cui ho sempre imparato molto e a cui spero di aver insegnato qualcosa».
Da scrittore cosa ti attrae di questo nostro presente?
«I rapporti tra le persone e tutto quello che tra loro continua a cambiare, in un mondo in trasformazione».