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 2020  gennaio 11 Sabato calendario

Intervista a Werner Herzog

Dalla Guerra fredda alle Guerre stellari, lo spazio filmico di Werner Herzog – regista, attore, scrittore – copre un’area geografica e temporale lunga mezzo secolo. Un arco di tempo in cui ha girato opere estreme, contaminato finzione e documentario in uno stile unico e inclassificabile, imbarcandosi a volte in leggendarie odissee produttive.

A settantasette anni l’autore tedesco ha accettato, a Berlino, l’European film award alla carriera con graziosa noncuranza: «Sarebbe stato più utile quarant’anni fa quando me la passavo male. Sono qui con lei a parlare, ma dovrei essere a Los Angeles in sala montaggio. La mia attività si è molto intensificata negli ultimi anni. Un premio alla carriera lo riserverei per quando lo ritirerò sulla sedia a rotelle», dice compiacendosi del proprio umorismo teutonico.
«Del resto i premi significano poco, non hanno reso migliori o peggiori i miei film».
Sullo schermo vedremo il cineasta culto di Fitzcarraldo, Nosferatu e
L’enigma di Kaspar Hauser, nel film-intervista Herzog incontra Gorbaciov, in sala dal 19 al 22 gennaio (co-diretto da André Singer). Poi indosserà i panni di un misterioso avventuriero nella serie culto The Mandalorian, spin off di Star Wars, firmata da Jon Favreau che sbarcherà in Italia con la piattaforma Disney+ il 31 marzo.
Com’è stato l’incontro con Gorbaciov?
«Emozionante. Ovviamente io sono più un poeta che un giornalista. Ci siamo riconosciuti l’uno nell’altro.
Abbiamo origini simili, abbiamo vissuto in zone remote senza acqua corrente, in un paesaggio devastato, sapendo che significa avere fame.
Abbiamo viaggiato tanto. Ci siamo incontrati più volte, anche se le sue condizioni di salute erano molto precarie. Credo si sia anche preparato sulla mia filmografia, mi ha fatto una serie di osservazioni.
Volevo raccontare il contesto storico in cui si è mosso ma anche guardare dentro l’uomo, intuendo attraverso la sua anima anche, a tratti, quella del suo Paese».
Lo considera la figura più grande del Novecento.
«Sì. Ammiro il ruolo che ha avuto nella riunificazione della Germania, ma anche il modo in cui ha saputo gestire la transizione inevitabile dell’Unione Sovietica, modificando politica e cultura senza distruggere tutto, non solo l’Unione ma la Russia stessa. Per lungo tempo in patria è stato considerato da molti un traditore, ma negli ultimi anni la tendenza è cambiata, la sua figura è stata rivalutata e penso che a 88 anni e dopo tante amarezze vissute se lo meriti».
Nella sua carriera d’attore ci sono oltre venti di titoli e il successo incredibile di "The Mandalorian".
«Non avevo visto i film di Star Wars, il set di Jon Favreau non era fatto di schermi verdi ma di polvere e realtà.
Il mio è un personaggio oscuro, Il Cliente, di cui non ci si può fidare. Mi sono ritrovato a un’anteprima con dodicimila fan, uno stupefacente caos, un collettivo urlo di gioia intorno a te e 50 milioni di persone online che ne discutono in rete. Il grande pubblico vede la serie in streaming».
Nostalgico del grande schermo?
«È un processo che non si può fermare o boicottare, come tenta di fare Cannes. Il cinema è il mio grande amore, ma oggi gran parte dei miei film li vedi in streaming o su internet. Ricevo mail entusiaste di quindicenni che hanno visto in rete L’enigma di Kaspar Hauser, che ho girato quando non erano ancora nati neanche i loro genitori».
Per Scorsese i film Marvel non sono cinema ma parchi giochi.
«Non ho seguito il dibattito ma è chiaro che il panorama è cambiato.
Chiedo alla figlia quattordicenne di una mia attrice quale film della madre ha visto in sala, risponde "pochi, non vado al cinema". Perché? "Nessuno dei miei amici ci va, prima di tutto perché è buio, intorno ci sono sconosciuti". È una risposta seria: c’è una generazione così, che neanche legge. Io costringo i miei studenti: se vuoi fare un film devi leggere».
Lei gira film ma non ne vede molti.
«Ho le immagini chiare in mente, non ho bisogno di misurare me stesso su ciò che fanno gli altri. Vale anche per l’opera. Ascolto le registrazioni, non vado a teatro e le poche volte che l’ho fatto sono rimasto deluso e infastidito: avrei inventato messe in scena diverse e migliori».
Si è formato sui classici greci e latini.
«È il mio retaggio culturale, ciò che mi ha preparato al pensiero concettuale, spiegato perché siamo qui. Riesco a leggere spesso il presente meglio di chiunque altro perché so guardare oltre il caos della superficie, le mie radici sono profonde, attingono a quella cultura».
Quali sono le cose importanti per lei?
«Domanda profonda a cui risponderei solo al confessionale, ma non vedo un prete da tempo. Non rivedo i miei film, avanzo come un soldato nel presente. A volte chiedo a mio fratello produttore: davvero ho fatto questo film o l’ho solo immaginato e lo hai girato tu? E lui: "Ho le prove, il contratto, li hai fatti"».
Da attore le piacciono i cattivi, come in "The Mandalorian" e in "Jack Reacher" con Tom Cruise.
«Sì. Tra i migliori metto il misterioso
Joker di Heath Ledger. Quando mi hanno chiamato per Jack Reacher volevano che facessi davvero paura.
Sapevo di poterlo fare. Ci sono riuscito così bene che hanno dovuto tagliare la scena più volte».
L’incontro con Klaus Kinski le ha cambiato la vita?
«No, né io ho cambiato la sua. È stata una relazione creativa intensa che a volte ha toccato luoghi e momenti pericolosi. Klaus si esaltava nel varcare i limiti, sfidando il pericolo.
Se devo essere sincero ho lavorato con colleghi migliori: il più bravo è Bruno S., con cui ho girato Kaspar Hauser, con la sua profonda verità».
Girando i suoi film sulla natura selvaggia anche lei ha rischiato la vita.
«Mai fatto un film in studio, funziono solo all’esterno. Amo l’avventura ma non cerco l’azzardo e so gestire il pericolo, come quando in Dentro l’inferno si è risvegliato un vulcano.
Il cinema per me oggi è modo di vivere, la paura non rientra nel mio vocabolario. Ma non ho mai messo a rischio la vita dei miei compagni di viaggio».