Robinson, 11 gennaio 2020
Parlando di Daniele Del Giudice
«Ecco, ora prendilo tu», mi dice Daniele continuando a guardare dritto davanti a sé e staccando contemporaneamente entrambe le mani dal suo volantino. Siamo in un freddo assolato mattino autunnale di fine anni Novanta, siamo appena decollati dall’aeroporto Nicelli del Lido di Venezia a bordo di un monomotore da turismo, di cui non ricordo il tipo e che Daniele ha finito di stabilizzare in quota. Avevo appena vissuto quelle parole che non dimenticavo e che non dimentico: «La corsa di decollo è una metamorfosi, ecco una quantità di metallo che si trasforma in aeroplano per mezzo dell’aria, ogni corsa di decollo è la nascita di un aeroplano, anche questa volta l’avevi sentita così, con lo stupore di ogni metamorfosi». Le parole esatte e immaginose diStaccando l’ombra da terra per qualcosa che non avevo mai provato prima, perché decollare sull’erba a bordo di un piccolo aeroplano, una piccola” macchina” come direbbe Daniele, seduti accanto al pilota, è qualcosa di completamente diverso dal decollo su un normale aereo di linea.
Staccando l’ombra da terra, tra l’altro, inventò con il titolo, per tutti noi non- piloti, un’azione e una emozione che prima non esistevano e lo fece con la forza data al paradosso (come si può staccare l’ombra da terra?) dall’esattezza delle parole contemporanea all’"ombra” ulteriore di senso a cui invitavano. Mi sentivo ancora le ali come cresciute dalle spalle, ma non osavo muovermi. «Dài…», mi dice Daniele con un sorriso sornione. E io poso le due mani sul volantino, restando immobile nel fragore della “macchina”. Chissà perché, ho come l’impressione di dovermi preparare ad agire e resistere con un movimento deciso e potente. Forse, semplicemente, il mio corpo sta pensando alla spinta possente e rotonda del timone di una barca a vela, con cui ho ben più consuetudine. Ma non è così. Il volantino è leggerissimo. Lo muovi quasi con il pensiero di muoverlo, ma con lui si muove l’intero mondo dentro cui siamo. Governare sul bordo di un equilibrio sottile e nuovissimo. Ecco la sensazione che avrò per tutto quel tempo vissuto dentro la mania di Daniele.
Quando penso a Daniele, ai suoi libri, alla sua scrittura, alla sua idea di letteratura, al suo modo di pensare e capire, persino quando penso alla nostra amicizia, mi torna il sentire di quel momento. Ci penso anche ora, quando arrivo a Venezia e invece che a San Polo o agli hangar, arrivo alla Giudecca, mi infilo nella calle della residenza dove è ospitato e dico il mio nome al citofono. Sono tutti gentili qui, il parco, che si affaccia sulla laguna e il Lido, è bellissimo, ma ormai inutile per Daniele, che trovo sempre nella sua stanza. Una stanza che non saprei individuare dall’esterno, una stanza che è sua, per così dire, in modo neutro: con lui, ma senza tracce sue. Pare strano solo a me. Le sue tracce sono, però, oltre che nei libri, in alcune parole- mondo che parlano di Daniele Del Giudice meglio di qualsiasi altra voce. Ne scelgo tre.” Sentire”, appunto, fin da Lo stadio di Wimbledon e da Atlante occidentale, è una “sua” parola. La usa, mi è sempre sembrato, come antidoto non tanto di sentimento, quanto di sentimentalismo come ingrediente, ricorso, retorica, usati per supplire all’afasia della mancanza, o dell’assenza, di esperienza.” Sentire”, invece, è come l’improvvisazione nel jazz: non puoi farlo se non conosci tutta la musica, ma non puoi farlo se non ti avventuri al limite della musica conosciuta, e da lì ami e conosci in un unico suono, in un solo gesto.
In tutte le cose che faceva ( ora non fa nulla), Del Giudice cercava di portarsi, per forza con ironia, ma anche con allegria, nel cuore di una frontiera, di un paradosso, del tragico in fondo, tagliando via con decisione ogni consolazione del patetico, di cui si abusa nell’epoca della condivisione.” Mania” è un’altra parola centrale di Del Giudice, che l’ha scelta addirittura come titolo per un suo libro di racconti, Mania appunto, che ne contiene sei, fra cui lo splendido Fuga, storia ambientata in un luogo che «era un cimitero ma anche un calendario» : una «macchina illuminista» realmente esistente a Napoli, opera dell’architetto Fuga, composta da 366 fosse che venivano aperte una al giorno nell’arco dell’intero anno per seppellirci dentro i morti poveri. “Mania” per Del Giudice può essere sì «demone che sconvolge la mente, ma anche una particolare forma di concentrazione, una forma estrema del conoscere e del coincidere con il proprio destino». “Mania”, insomma, è un punto di vista su uomini e cose, che comporta un proprio preciso linguaggio, un proprio modo di conoscere e sentire il mondo di tutti e le sue metamorfosi. Mania è vedere la terra dal mare, come per Conrad, o gli uomini dal cielo come il “fratello” Saint-Exupery.
Direi che l’intenzione da cui Daniele Del Giudice ha sempre mosso è stata quella di rinominare il mondo, sentire la vita, abitando la soglia di una scrittura che è modo di pensare sempre ancora una volta il nuovo che viene, senza mai accontentarsi del mestiere mestierante, ma parlando di scrittura come di “lavoro”, parola “laica” che definisce un fare artigianale inteso sempre come da opporre alla chiacchiera dell’arte. C’è una specie di teoria dell’amicizia di Daniele. L’ha raccontata in diverse occasioni e mi torna in mente ogni volta che vado a trovarlo stando per qualche tempo, non so bene in quale veste, davanti al suo corpo. La teoria si potrebbe formulare come segue. Ci sono due comunità di amici. Una è quella con cui lui, che era cresciuto nelle periferie di Roma con la passione di motori e motociclette, parlava di carburatori, valvole e pistoni, di come truccare i motori; l’altra è quella degli amici « che leggevano i romanzi e con i quali parlavo di filosofia e letteratura » . Le due comunità si detestano, racconta Daniele, ma la frequentazione di entrambe è maieutica di quella distrazione che, sola, ti può portare nei campi di " probabilità" in cui il nuovo che si annuncia nella storia e in ciò che è contemporaneo muove i primi passi, a quell’attenzione per le scienze e le tecniche che sono « un riferimento conoscitivo indispensabile, un nutrimento, e la curiosità per un immaginario che lavora in modo diverso » . La scienza che dialoga con questa idea di letteratura è quella che mentre scopre nuovi frammenti, magari invisibili, di realtà deve anche inventare il linguaggio per poterli descrivere. Un linguaggio che, come quelli tecnici e quelli della mania, deve essere il più chiaro ed esatto possibile, nella consapevolezza però che anche la parola più esatta nel momento stesso di far luce su un " movimento dell’anima", genera anche un lato di enigma, un lato d’ombra. « Ecco, il conflitto con la lingua cui accennavo prima può anche essere inteso in questo modo: nel custodire la parte in ombra che ogni parola porta con sé». Chi sta nella mania è curioso più che delle opinioni, della mania altrui. La mania è un territorio d’amore. Lo ha capito perfettamente Tiziano Scarpa nella bellissima prefazione all’ultima edizione dei Racconti di Del Giudice. In questi racconti, scrive Scarpa, in quasi tutta l’opera di Del Giudice aggiungerei io, c’è « una scena ricorrente: qualcuno comunica a qualcun altro la sua passione conoscitiva; e, nel farlo, trova nell’altro una rispondenza, una condivisione; suscita una curiosità viva, sincera » . La relazione a due in Del Giudice è la più vera, continua Scarpa, la sola che permette di « ospitarsi l’un l’altro » . La cosa sorprendente è che non ci si comunica una situazione interiore, « ma si descrive un oggetto, un mestiere, una caratteristica tecnica… Il rapporto fra due persone ha bisogno di una triangolazione, un tertium: i loro sguardi devono convergere su una cosa messa a fuoco in comune » . Perfetto. L’unica cosa che non condivido è che Tiziano Scarpa definisce tutto ciò un’" utopia malinconica". A mio parere è più il ritratto di un’idea di amicizia. Come religione tutta terrena, senza gloria e senza salvezza, e in questo sì un po’ malinconica, come luogo e tempo non dell’effusione ma del non detto, come " ombra" della precisione del linguaggio della mania, ma anche come ciò che abbiamo e non solo come ciò che ci resta. Il linguaggio esplicito e insistente della mania come forma di understatement degli affetti.