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 2020  gennaio 11 Sabato calendario

Intervista a Ermanno Cavazzoni

A cent’anni dalla nascita di Federico Fellini, torna per la terza in volta in libreria il romanzo che ispirò il suo ultimo film, La voce della luna (con un eccezionale Paolo Villaggio e Roberto Benigni nella parte dei protagonisti). Era il 1990, e il libro di Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, era uscito da tre anni, nel 1987, per Bollati Boringhieri. Era stato anzi il primo della nuova gestione della storica casa editrice, quando ne prese la guida appunto Giulio Bollati, aprendo un filone di narrativa accanto a quello tradizionale dedicato alla scienza e in particolare alla psicanalisi. E fu un evento editoriale, la scoperta di una nuova voce della letteratura italiana che negli anni avrebbe mantenuto un ruolo di protagonista, sebbene austeramente defilato rispetto al sistema dei media, in quell’area linguistica e tematica che si suole definire come «narratori delle pianure» dal titolo dei racconti di Gianni Celati pubblicati nel 1985. L’avverbio sembrerebbe in realtà poco adatto alla verve non austera, semmai comica dell’autore, ma tant’è, i due aspetti coesistono. Il poema dei lunatici, (poi sarebbero arrivati, per citare qualche titolo, Vite brevi di idioti, Cirenaica, ripubblicato in seguito come La valle dei ladri, Guida agli animali fantastici, e in ultimo La galassia dei dementi) ne è la prova, che resiste benissimo al tempo.
La nuova edizione per La Nave di Teseo fa seguito a quella del 2008 per Guanda: le avventure strampalate dell’ingenuo (forse apparentemente ingenuo) Savini e del prefetto Gonnella ci hanno accompagnati per più di trent’anni, coppia debitamente donchisciottesca alle prese con gli inganni e le fughe prospettiche della vita, l’uno ad ascoltare le voci dei pozzi, anzi i messaggi in bottiglia depositati sul fondo, l’altro a cercare di sconfiggere un metafisico complotto, convinto che la realtà sia pura e truffaldina apparenza. Il tema era decisamente felliniano, anche per l’ambientazione geografica. L’incontro sembrava già scritto, ma non sempre le cose che dovrebbero accadere accadono veramente. Ci fu un ovvio intervento del caso.
Come andò, esattamente?
«Nel modo più semplice. Fellini lesse un articolo su Panorama, dove si raccontava dell’interesse che il libro aveva destato alla fiera di Francoforte. C’era anche una mia fotografia, presa su un ponte che attraversa il Meno, e io, coi capelli gonfiati da un vento fortissimo, avevo un po’ l’aria dello scrittore pazzo. Mi disse poi che lo aveva molto colpito».
Ma anche il libro avrà avuto la sua importanza.
«Lo sfogliò in libreria come spesso faceva, facendo scorrere le pagine col pollice cominciando dalla fine. Compra, legge, e mi telefona. Pensai che fosse uno scherzo».
Di qualche burlone o del regista?
«Difficile decidere, sul momento. Sapevo che amava alterare la voce e fingersi la segretaria, una volta mi raccontò di aver persino intessuto al telefono un rapporto amoroso con un giornalista».
Sotto mentite fonetiche spoglie?
«Pare di sì. Comunque sia era mattina presto, almeno per me. Quando riuscii a raccapezzarmi, è ovvio che accettai. Partecipai alla sceneggiatura, e fu un lavoro davvero stimolante oltre che divertente. Ce ne andavamo in giro per la Bassa a studiare i luoghi (che poi sarebbero stati tutti ricostruiti a Cinecittà), a incontrare le persone, i contadini, i sindaci molto interessati alle eventuali ricadute turistiche. Fellini era popolarissimo – lui amava ripetere di essere l’unico regista più famoso dei propri attori -, tutti lo riconoscevano anche se magari non avevano mai visto un suo film. Era una specie di eroe popolare, un Garibaldi. Ci invitavano nei casali a mangiare tortellini».
Il film e il romanzo hanno molti punti in comune, ma sono in qualche modo rovesciati o rimontati.
«Sì, La voce della luna è diventato in realtà un film sulla vecchiaia».
In qualche modo è la tragedia del prefetto Gonnella. Mentre il suo romanzo è più l’avventura picaresca del giovane Savini, sempre ingannato e sempre fiducioso nella sua ricerca di qualcosa che sta dietro o accanto al mondo come lo conosciamo. A proposito, perché sullo schermo è diventato Salvini? Nel ’90 non c’erano riferimenti politici possibili.
«Fu Fellini a correggere il nome. Cominciò con un equivoco, poi decise che gli piaceva l’idea del salvare, della salvezza possibile. Ha considerato l’iniziale errore come un segno del destino».
Un poco paradossale, riletto e rivisto oggi. L’altra differenza è nel linguaggio, dove i vari dialetti, non solo quelli padani, si confondono in una sorta di gramelot.
«Fellini voleva che non si capisse niente. Tutti gli attori vennero doppiati accentuando le caratteristiche dialettali. E in qualche caso gli stessi dialetti vennero resi del tutto impenetrabili».
Il suo uso letterario invece è molto diverso. Il linguaggio, con la una forte tessitura popolaresca, sembra ricondurre a un’illustre tradizione padana del Cinquecento. Come si evince ad esempio dalla sua «Guida agli animali fantastici».
«Se sta pensando ai maccheronici le confermo che uno dei miei amori letterari è Teofilo Folengo; una meraviglia, peccato sia intraducibile. Ora purtroppo solo qualche professore di latino, temo, è in grado di goderselo. Sintassi latina perfetta e lessico popolare contadino, è un po’ come fare il verso al più asino della scuola. Io ho provato a rendere in un italiano maccheronico il primo libro del suo Baldus».
Che inizia con quel grassissimo «sibit cagat adossum», a proposito della voragine infernale impaurita dalla fama dell’eroe. Per non parlare del gigante Fracassus. Possiamo considerare la sua idea di «italiano maccheronico» come l’esercizio linguistico che sta dietro al «Poema dei lunatici»?
«In realtà le prime suggestioni per questo libro mi sono venute dagli archivi degli ex ospedali psichiatrici, dalle cartelle cliniche dell’800 dove c’era in qualche modo anche la voce del malato. Li studiavo e schedavo per i beni culturali dell’Emilia Romagna, dopo la legge Basaglia, e alla fine ne trassi un’adeguata relazione. Un piccolo saggio tecnico. Ma intanto cominciai a sentirmi proprio come Savini, perché andavo a cercare voci, con la mia cartella sottobraccio, di manicomio in manicomio».
Così, all’inizio dei «Lunatici», lo ha spedito in giro per le campagne di pozzo in pozzo. La terza edizione è immutata nel testo. Niente da aggiungere o cambiare?
«No, è un modo di scrivere che a un certo punto ho sentito distante».
Però ci sono costanti nel suo lavoro: per esempio l’aspetto spettrale della realtà, il vedere le cose come se fossero finte.
«Questo è forse il mio denominatore comune».
E forse il suo vero progetto letterario. Dico forse perché lei non ama teorizzarsi, mi sembra. Né ha mai preso partito nelle dispute diciamo così di poetica, per esempio sul romanzo, in tutti questi anni.
«Non si può chiacchierare della propria passione. Se di una donna amata racconti proprio tutto, scadi nella pornografia. Preferisco coltivare ciò che amo e che so fare, piuttosto che prendere continuamente partito, come hanno fatto per esempio le avanguardie. Che hanno prodotto soprattutto manifesti: cioè chiacchiere, pappetta. Qualcosa di simile, del resto, accade nella politica. Meglio, molto meglio, fare ciò che almeno per te abbia un significato».