Tuttolibri, 11 gennaio 2020
Intervista alla scrittrice Rachel Cusk
Rachel Cusk (52 anni, nata in Canada, cresciuta in Usa, vivente in Gran Bretagna, tra Londra e il Norfolk) è la tipica autrice di culto che divide. Celebrata dalla critica, qualcuno parla di lei in termini di pura adorazione. Altri la detestano, principalmente per due motivi. Primo: la sua scrittura rarefatta e la scelta minuziosa di ogni parola sono considerate un giochino letterario snob. Secondo: ha osato raccontare la verità sull’ambivalenza della maternità e l’esperienza di un divorzio doloroso in due memoir (A life’s work, 2001 e Aftermath, 2012) che hanno scatenato reazioni violente della stampa e dei lettori. Sul Guardian la stessa Cusk ha recentemente ricordato che la prima recensione al libro sulla maternità, a firma di una donna, diceva che leggendolo la gente avrebbe smesso di riprodursi. Insomma, la si odia o la si ama. Di fatto si parla molto di lei per la cosiddetta «trilogia dell’ascolto», pubblicata da Einaudi Stile Libero nella bella e precisa traduzione di Anna Nadotti. Onori, in libreria da martedì per Einaudi, conclude il trittico iniziato con Resoconto e Transiti.
I tuoi libri sono più un progetto letterario che dei romanzi classici. Sei d’accordo?
«Dipende da cosa si intende con la definizione di "romanzo". Per me è una forma di vita organica che deve cambiare per fare bene il proprio lavoro di rappresentare l’esperienza umana. La forma che ho usato nella trilogia credo sia più vicina a questa rappresentazione, rispetto alle forme convenzionali del romanzo. Quindi credo sia qualcosa di più di un romanzo».
Per il New Yorker sei la scrittrice che «ha demolito e rifondato il romanzo». Concordi?
«Non posso dirlo io di me stessa. E’ difficile dire se quello che ho fatto apra nuovi orizzonti e porti altri artisti su altri percorsi o dia loro delle nuove idee. Questa è una questione più complessa. Certamente l’influenza di altri sull’opera di un artista è importante e anche la mia opera come scrittrice è il frutto di altre influenze. Io ho fatto qualcosa di nuovo per me e forse ho influenzato altri, ma non so dire se sia una buona cosa o no per gli altri».
Sembra che la struttura del romanzo tradizionale - trama, suspence, personaggi, inizio, finale – ti infastidisca...
«Sì. Penso che queste convenzioni siano insufficienti per me come scrittrice per rappresentare il tipo di esperienze che voglio raccontare».
Faye è un po’ te, ma anche no. Adesso va molto di moda parlare di autofiction. Come definiresti la trilogia?
«Io mi sento molto più una romanziera che una scrittrice di autofiction. Prima avevo scritto dei memoir, ma poi ho trovato insufficiente anche quella forma. Nella trilogia ho sperimento qualcosa che va oltre il memoir, il materiale che avevo raccolto non poteva essere espresso neppure in quella forma. Ho dovuto smantellare molte convenzioni della mia educazione prima di arrivare ad esprimere la mia voce autentica».
È vero che hai adottato questa nuova forma dopo che i tuoi memoir sulla maternità e sul divorzio, dove raccontavi una realtà cruda e disturbante, ti hanno portato addosso critiche molto pesanti?
«In un certo senso sì. Anche se quello che faccio è qualcosa di più della strategia narrativa di nascondersi dietro il racconto di un personaggio. In un memoir, indipendentemente dalle capacità narrative, il punto di vista è quello di chi scrive, anche se non ha niente a che vedere con la persona che è in quel momento, è la struttura che lo rende un bersaglio. Specialmente se provi a raccontare cose dell’esperienza femminile che il mondo considera "pericolose". L’istinto naturale è quello di allontanare i tabù femminili. Quindi ho scelto di non avere un punto di vista, di non avere un soggetto narrante».
In «Puoi dire addio al sonno» (pubblicato da Mondadori nel 2009), raccontavi quello che nessuno vuol sentir dire sulla maternità. E scrivevi cose del tipo: «Per essere una madre devi ignorare le chiamate, lasciare il lavoro a metà, non rispettare gli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciare piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, dimenticarla per pensare ad altre cose. Avere successo nell’essere l’una significa fallire nell’essere l’altra». 18 anni dopo le donne della trilogia sono ancora lì, a lottare per trovare un equilibrio. Sarà mai possibile trovarlo?
«Penso che sia una storia in continuo divenire. Le mie figlie adesso se ne sono andate di casa e la mia storia è cambiata. Sono come una pietra nel fiume che la corrente ha spostato in un altro luogo e si chiede: come ci sono arrivata qui? Direi che ci sono due risposte alla questione. La prima è: come la società si organizza per rendere più semplice per una donna avere un figlio e continuare ad essere un individuo. E la seconda è più filosofica: che posto ha questa esperienza nell’insieme di una vita. E questa non credo che avrà mai una risposta».
In uno dei dialoghi si affronta proprio il tema del vuoto della libertà quando i figli se ne vanno di casa e la pesantezza di avere una famiglia.
«Io credo che quello che si percepisce come vuoto sia in verità il ritorno a uno stato di pura esistenza e il vuoto sia il segno di qualcosa che non c’è più. E’ qualcosa che tutti provano. Anche gli uomini quando vanno in pensione».
«Kudos», titolo originale del libro, è un sostantivo greco singolare che in inglese si usa solo al plurale e significa letteralmente «onori». Perché questo titolo?
«Tutta la trilogia ruota intorno al concetto del valore della sofferenza. Cioè se c’è qualche riconoscimento o ricompensa come conseguenza della sofferenza e della perdita. Secondo il modo di percepire lo status e il successo, il personaggio di Faye è qualcuno che ha perso molte cose, è un po’ un fallimento e sta cercando la strada per vivere in un modo diverso nel mondo. Quindi è l’idea di ricevere un riconoscimento, non proprio onori (lo dice in italiano, ndr), in termini di premi e ricompense».
Quali sono le ricompense importanti per Faye (e quindi, traslando, per te) nella vita?
«La libertà. Faye sta cercando la libertà e un modo per lei e per i suoi figli di vivere in maniera autentica nel mondo. Forse non è una grande ambizione, ma è quello che le importa».
Nel 2003 eri già nella lista annuale dei venti scrittori più promettenti della rivista «Granta». Poi sei stata selezionata per molti premi importanti, spesso tra i finalisti, ma non hai vinto. Ti dispiace?
«Sì. Non mi dispiace se mi ignorano del tutto, ma essere l’eterna finalista lo trovo un po’ offensivo. Lo dico come battuta, ma in fondo è vero».
Credi che il lavoro letterario femminile sia ancora sottostimato?
«Credo che la letteratura femminile spesso sia ancora valutata nella maniera sbagliata».
Perché?
«E’ un problema di autorità. Le persone devono fare uno sforzo per ricordarsi che anche il lavoro femminile ha una sua autorevolezza. Come lo dimenticano, tornano a giudicare con occhi maschili. Quindi devono fare uno sforzo speciale per giudicare il lavoro delle donne. E questo vale per tutti gli aspetti della vita».
Pensi che le opere letterarie siano valutate solo sulla base dei premi e dei riconoscimenti che hanno ricevuto?
«Penso che sia difficile per le persone decidere cosa leggere. Molti scelgono quello che un gruppo di persone ha giudicato il libro migliore. Spero ci siano vie migliori di consigliare storie che possano commuovere, motivare, significare qualcosa per le persone. In verità i giovani, secondo la mia esperienza, cercano di evitare libri che hanno vinto premi».
Un tema forte della trilogia è la fine di un matrimonio. Quasi tutti i personaggi sono divorziati. Tu stessa ti sei sposata tre volte. Ti definiresti una recidiva?
Ride. «Buon punto». Ride ancora. «Ma non posso rispondere a questa domanda».
Ma significa comunque che credi nel matrimonio.
«In verità la prima volta è stato un errore. La seconda è stato un vero matrimonio, con vita famigliare, la casa, i figli eccetera. La terza è perché visto che i matrimoni precedenti mi hanno ferito, se devo suicidarmi tanto valeva farlo nella stessa forma». Ride di nuovo.
Faye viaggia molto per tenere corsi di scrittura. Ci sono situazioni esilaranti, racconti inverosimili di aspiranti scrittori. Pensi che sia possibile insegnare a scrivere?
«Uno dei cardini della trilogia è proprio il significato dello scrivere. Non credo sia possibile insegnare scrittura come si insegna la matematica. Sei piuttosto una guida che aiuta le persone a connettersi con la memoria di quando erano bambini ed erano capaci di creare storie, una creatività che si perde a un certo punto con l’adolescenza. Nell’Inghilterra elisabettiana tutti scrivevano poesie e non vorrei passare per una nostalgica, ma la gente che vuole scrivere non fa del male a nessuno. Sempre meglio del capitalismo o dello shopping».
Oggi non si è mai scritto così tanto. Basta pensare ai social, Twitter, Facebook...
«In quelle forme c’è anche un lato molto negativo dello scrivere. Là fuori ci sono un sacco di voci, e molte sono davvero sgradevoli».
Ho sottolineato molte frasi provocanti e interessanti dei tuoi personaggi su scrittura, libri, letteratura. Vorrei sapere se tu sei d’accordo con loro. Iniziamo il gioco: «Leggere libri rende migliori le persone». Vero o falso?
«Non ne ho la più pallida idea».
«Molti scrittori invitati ai Festival sono bravi a parlare ma sono dei pessimi autori di libri». Vero o falso?
«Non ne ho la più pallida idea».
Niente gioco, allora.
«Mi piace il gioco, ma non posso rispondere. Il punto di quelle frasi è che io non sono in grado di dare un giudizio. Se avessi una risposta non avrei potuto scrivere questi libri. Sarei un tipo completamente diverso di scrittrice, avrei scritto dei libri diversi. Quelle dichiarazioni appartengono ai miei personaggi e il mio lavoro non è di giudicare ma di rappresentare».
Faye è sempre in giro per Festival e conferenze. A te piace frequentare quello che chiami il «circuito letterario»?
«Mi piace incontrare lettori, altri scrittori, gli editori stranieri. Ma vado solo all’estero, mai in Gran Bretagna».
Perché?
«Perché non mi sento sicura. Sono stata criticata ferocemente qui, e non sono più interessata a cosa il mio Paese pensa di me. Ma comunque ora ho deciso di viaggiare un po’ meno perché sto lavorando a un testo teatrale e a un altro libro».