La Stampa, 11 gennaio 2020
1920, l’America mette al bando l’alcol
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Nel 1826 era classificato in sacrestia come «Sermone Numero 1: Natura e Occasioni dell’Intemperanza», il cavallo di battaglia del predicatore americano Lyman Beecher, che dai pulpiti del Connecticut tuonava ai fedeli presbiteriani «L’alcol è la causa di ogni male!». Nel 1851 Neal Dow, sindaco di Portland in Maine, raccolse tante firme contro birra e liquori nello Stato del Nord-Est yankee americano, da far instaurare il primo proibizionismo locale.
Ci vollero altri 69 anni, fino al 17 gennaio 1920, perché il bando diventasse nazionale e da quel giorno, un secolo fa, fino al 1933 la vendita di alcolici fu vietata negli Stati Uniti. Personaggi da romanzo, come il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato nel 1925, non sarebbero mai stati ideati senza il «Volstead Act», il diciottesimo emendamento alla Costituzione Usa che, approvato il 18 dicembre 1917 e battezzato dal deputato del Minnesota puritano Andrew Volstead, proibì vendita, produzione e commercio di alcolici. Si badi, non il consumo privato, che rimase legale, solo il «traffico». Il presidente democratico Woodrow Wilson appose il veto, ma tale era l’eco della campagna anti-liquori che il Senato, 57 a 20, lo annullò. Alle feste del Grande Gatsby gin e champagne scorrono a fiumi, legalmente, e gli ospiti deducono che il protagonista deve essere un «bootlegger», trafficante di alcol. Gatsby ha accesso facile ai liquori, dunque è un gangster.
I gangster veri, Charles «Lucky» Luciano, Johnny Torrio e il suo pupillo Al Capone, non erano romantici alla Gatsby, usavano i «Tommy gun», mitra a ripetizione, arsenale di armi tanto sofisticato che il Mob Museum, il museo della mala a Las Vegas, ancora lo espone. A Chicago, la metropoli di Capone, nel 1929, anno della crisi a Wall Street, la gang italoamericana apre il fuoco, mascherata da poliziotti, al 2122 N. Clark Street, lasciandosi dietro sette rivali morti e i giornali strillano «Massacro di San Valentino».
Si beveva di nascosto negli «speakeasy» (letteralmente «parla piano!»), club privati dove, superati spioncini, gorilla e parole d’ordine, si poteva finalmente ingollare uno scotch, e ristoranti celebri, come il 21 Club di Manhattan, ne sono gli ultimi superstiti. Si produceva di nascosto il «moonshine», chiaro di luna, whiskey distillato in cantina, o il «bathtub gin», gin clandestino preparato nelle vasche da bagno, bevuti poi da barattoli di vetro, come fossero marmellata. Certi beveroni erano alcol puro, i fumi appena camuffati da aromi puzzolenti e per mascherare nello shaker prodotti di dubbia provenienza nacquero dunque affascinanti cocktail. Parecchi liquori europei, Campari e Fernet Branca per esempio, si fecero passare da «medicinali» ottenendo l’esenzione dal divieto. Nasce allora il classico cocktail Boulevardier, un Negroni con Campari e vermut, altro liquore spesso considerato «farmaco», ma con il bourbon al posto del gin.
Nei film di Hollywood e nelle serie tv i profeti del proibizionismo, come la Carrie Nation che armata di un’accetta sfondava botti di birra nei saloon, vengono ritratti da intolleranti, reazionari, beghine. La verità storica è ben diversa. La rivoluzione industriale, inurbando nelle metropoli milioni di contadini poveri, crea un’epidemia di alcolismo, e già il pittore inglese Hogarth, nel 1751, ne ritrae la disperazione. L’alcol distrugge vite, famiglie, induce violenza, stupri, annullando la dignità di oppressi e lavoratori. I proibizionisti erano perciò anche riformatori sociali, progressisti, femministe ante litteram. C’erano sì predicatori che minacciavano l’Inferno ai bevitori da botti pulpito, come il famoso Billy Sunday, ma i militanti del Progressive Movement mischiavano - secondo lo storico Mark Schrad - «Marx, Jefferson e Gesù».
Né il proibizionismo fu, cento anni fa, esclusiva bizzarria americana. Lenin abolì già nel 1917 il monopolio sulla vodka zarista, che garantiva, come negli Stati Uniti, un terzo delle tasse, scoraggiando il consumo di alcol tra i bolscevichi. Il Nobel per la pace e primo ministro svedese Branting vedeva nei liquori la longa manus del capitalismo per schiavizzare i proletari. Il padre dell’indipendenza indiana Gandhi considerava i liquori l’arma dell’imperialismo coloniale britannico. E al futuro premier inglese Winston Churchill che denunciava, nel 1929, il proibizionismo come attacco alla libertà degli individui, il pubblicista William Johnson ribatté che era piuttosto il torpore degli alcolizzati a minarne coscienza e libertà. Vietando non il consumo ma la produzione, il proibizionismo viene dunque ormai rivisitato da molti studiosi come antesignano positivo delle campagne sociali contro il fumo, le diete non salutari, il casco in moto o le cinture in auto, la società materna che tutela, non strumentalizza, il cittadino.
Finì il 5 dicembre 1933, alba del New Deal, con il presidente Roosevelt a cancellare le code del Volstead Act. Ogni pomeriggio, fino alla morte nel 1944, FDR celebrerà alle 17 «L’ora dei bambini», mischiando di persona cocktail per gli ospiti dalla sua carrozzella di poliomielitico, e intimando burbero per una volta alla fedele segretaria «Solo bourbon, mai scotch o rye, nella nostra ricetta dell’Old Fashioned, ricordalo!».