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 2020  gennaio 10 Venerdì calendario

Periscopio

Per la giornata delle riforme di bandiera, scelto il primo aprile. Dino Basili. Uffa news.

La Shoah è accaduta, quindi può accadere di nuovo. Primo Levi.

Che succede se il Pd perde l’Emilia Romagna? Vuoi dire oltre al suicidio di Zingaretti? Jena. La Stampa.

«Tranquillo, la Liguria non è sola». «C’è tutto il resto dell’Italia che crolla insieme a lei». Ellekappa. La Repubblica.

Davide Casaleggio ha capito che questo M5s non ha più a che fare con il Movimento di suo padre e vuole accelerarne la fine. Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine. Paolo Becchi. Libero.

E stato fatto di tutto per mettere tra parentesi, archiviare, dimenticare la svolta del Pci dopo il crollo del Muro di Berlino. L svolta infatti è stata un inizio che non ha avuto seguito coerente e compiuto. Molte domande da cui prendemmo le mosse, sono ancora senza risposta. In questo senso è ancora una ferita aperta. Claudio Petruccioli (Lavinia Rivara), la Repubblica.

Se la storia aveva creato da tempo un solco tra Psi e Pci, le contrapposte politiche di Craxi e Berlinguer avevano aperto una voragine. Massimo De Angelis, Post – Confessioni di un ex comunista. Guerini e associati, 2003.

Gli europei, come popolo, non esistono, e non sarà certo la moneta unica a farli esistere. Oppure si pensa che sia stato il dollaro a fare grande l’America? O lo yen a costruire la personalità perseverante e lavoratrice dei giapponesi? Ida Magli, Contro l’Europa. Bompiani, 2001.

Il Pd, per derenzizzarsi, torna indietro alla sinistra pre-dalemiana: è una mossa insensata, perché non è quello il problema. Se la crisi della sinistra fosse che è andata troppo a destra, Leu avrebbe preso una vagonata di voti. Il problema della sinistra è che non capisce che, se vuole rappresentare i ceti popolari, le periferie, gli esclusi, deve dargli esattamente quel che gli promettono Lega e Cinque Stelle: più sicurezza, meno immigrazione, più welfare. Luca Ricolfi, sociologo. (Pietro Senaldi). Libero.

Gli schizzi sono più evidenti, fanno emergere, nella figura di Colombo, un ometto pavido che gli indios compatiscono. Ero appena tornato da una lunga esperienza in Brasile che aveva spostato il mio sguardo sul piano geopolitico. La prima volta che mi vide nella redazione di Linus, Oreste Del Buono mi scambiò per un brasiliano: parlavo poco e avevo la pronuncia portoghese. Altan (Simonetta Fiori). la Repubblica.

Da un anno stavo arredando una villa a mezzo chilometro da quella in cui fu massacrata Sharon Tate. Una casa straordinaria. Ci ha abitato Julio Iglesias, che le ha pure dedicato un album, 1100 Bel Air Place. Poi passò a Quincy Jones. Una sera Nicholson ci telefonò: «Come here». Andammo. Da quel momento ribattezzò me e le mie amiche The Musketeers, le tre moschettiere. Francesca Calissoni, stilista. (Stefano Lorenzetto). Corsera.

Sono nata a Roma. Mia madre era triestina ed ebrea. Il suo matrimonio con Gino Castellina non durò a lungo. Finì davanti alla Sacra Rota. Mio nonno, triestino anche lui, fu amico di Oberdan. Mia madre si risposò e con il nuovo marito ci trasferimmo a Verona. Tornai a Roma e frequentai il Tasso dove conobbi Anna Maria, la figlia del Duce. Lei mi invitava a volte a Villa Torlonia. Anna Maria era condannata dalla polio a portare il busto. Mi incuriosiva la sua intelligenza sferzante, il suo sentirsi a un tempo privilegiata e derelitta. Quando il fascismo cadde, ero ospite nella sua villa di Riccione. Delle guardie interruppero una nostra partita a tennis e le dissero che doveva in tutta fretta rientrare a Roma. La rividi per caso dopo la guerra. Conservava la sua verve ma era come sperduta, in una città e in un mondo che non erano più i suoi. Luciana Castellina, fra i fondatori de il Manifesto. (Antonio Gnoli). La Repubblica.

La vecchia mala milanese, con i suoi codici d’onore, è stata sostituita dalla mafia calabrese che però ha alzato il livello, si occupa di affari finanziari e in giro non si vede. Come, a Milano, fuori dai palazzi istituzionali e delle cerimonie d’uso, non si vedono, e non si sono mai visti, gli uomini politici, nemmeno un consigliere comunale in un cine. Massimo Fini, Una vita. Marsilio, 2015.

Urvàn sentiva sempre più forte la stanchezza delle guerra e della sua condizione. Sentiva pesare su di sé il ricordo di tutti i cosacchi che erano morti in cento modi diversi, in scontri con partigiani polacchi, balcanici, italiani, in mitragliamenti, in bombardamenti, in imboscate, di malattia. Non riusciva a liberarsi dal pensieri che il Kazàk si lasciava dietro una scia infinita di morti, per i quali spesso non c’era nemmeno posto nei cimiteri dei villaggi, e bisognava buttarli nei laghi e nelle fosse comuni. Paradossalmente, cominciava a sentire un po’ il Friuli come la patria dei cosacchi, perché i cimiteri friulani erano pieni dei suoi morti. Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti. Mondadori, 1985.

Le due sponde del fiume Neretva vennero unite nel 1557 dallo Stari Most, il «Ponte Vecchio» di Mostar costruito dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar, con una grande opera commissionata dal sultano Solimano il Magnifico. Un gioiello dell’architettura medioevale musulmana, con quei 456 blocchi di pietra bianca che per quasi cinque secoli si sono tenute insieme grazie ad un sistema d’incastri e tasselli, in un’unica arcata a schiena d’asino. È stato a lungo un mistero come quella costruzione così ardita (al momento del suo completamento era il ponte ad arco singolo più grande al mondo) potesse anche solo stare in piedi. Diverse questioni tecniche legate alla sua costruzione rimangono ancora oggi un giallo senza soluzione: nessuno sa dire come venne eretto il ponteggio, come venne trasportata la pietra da una sponda all’altra, come abbia fatto l’impalcatura a rimanere in piedi per tutto il lungo periodo della costruzione. Maurizio Pilotti. Libertà.

Sono intrappolata nelle metropoli perché lì ci sono le grandi sale da concerto, ma appena posso, scappo. E cerco il mare. Per il quale il mio amore è qualcosa che va oltre. Beatrice Rana, pianista leccese. (Nicoletta Sguben), la Repubblica.

Era una di quelle famiglie romane abituate a uscire tutte le sere, a mangiare fuori tutte le domeniche. Anche coi debiti e le cambiali. Mai rinunciare al parrucchiere, al gioiello, alla pelliccia, alla trattoria, al pedicure. Male che vada, gnente gnente, «se scenne a prende na cossa ar bare quassotto», con tutte le nonne e parecchie bambinacce. Alberto Arbasino, Super-Eliogabalo. Einaudi, 1969.

Il vero successo è il riconoscimento dei nostri meriti. Roberto Gervaso. il Giornale.