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 2020  gennaio 10 Venerdì calendario

Lo sciopero in Francia, un rito antiquato

Trentasei giorni di sciopero. Gli eventi di questi giorni in Francia ci riportano indietro nel tempo: a un’epoca nella quale i lavoratori conquistavano nuovi «diritti» scendendo in piazza per protestare. Così, almeno, in apparenza.
In realtà, il nemico degli scioperanti è il governo, che sta tentando di riformare il sistema previdenziale, in Francia una sorta di vestito di Arlecchino nel quale categorie diverse sono soggette a un regime differente, frutto della loro capacità negoziale. Macron sta provando a muoversi nella stessa direzione in cui è andata anche l’Italia, con la riforma Dini del 1995 e la riforma Fornero del 2011: quella di adottare il calcolo contributivo della rendita pensionistica. Così spera di far fronte ai problemi che la demografia causa agli Inps di ogni Paese occidentale. In un sistema «a ripartizione», i contributi dei lavoratori di oggi pagano per i pensionati di oggi. L’adesione non è libera ma coercitiva: per questo chi comincia ora a pagare i contributi è ragionevolmente fiducioso di percepire una pensione domani, perché qualcun altro sarà costretto a pagargliela esattamente come oggi capita a lui. Ma se diminuisce il numero dei lavoratori, semplicemente perché ce ne sono di meno, il sistema si trova in acque difficili. 
Le pensioni sono una specie di catena di Sant’Antonio finanziaria che regge finché la popolazione cresce. Nel momento in cui non lo fa più, bisogna correre ai ripari.
Ha senso scioperare contro la demografia? L’esito che uno sciopero come quello francese si propone è far saltare la riforma, posticipando il redde rationem. Passare la patata bollente a chi verrà dopo.
L’astensione dal lavoro nasce come uno strumento per guadagnare condizioni migliori (un ambiente più salubre, un orario più contenuto, un salario più elevato). Cambia pelle negli anni Settanta: l’inflazione elevata determina una spirale prezzi-salari che trasforma le contrattazioni salariali in questioni pubbliche, e i sindacati diventano attori politici di prima grandezza. 
Oggi in molte aziende e settori produttivi si è tornati a negoziazioni puntuali, nelle quali si scambia maggiore flessibilità con «welfare privato», garanzie che vadano a sostenere i bisogni delle famiglie dei lavoratori in un momento in cui il welfare statale è in crisi. 
Se il datore di lavoro è, anche indirettamente, lo Stato, pensiamo per esempio al trasporto pubblico, la logica è diversa, si mira alla conservazione dello status quo, non c’è la concorrenza a indurre a valutazioni più prudenti. Lo sciopero resta assai frequentato in quest’ambito, in cui può produrre disagi ad ampio raggio (per tutti gli utenti della metropolitana di una città, per esempio) e questi ultimi possono diventare un guaio, in termini di consenso, per il decisore politico.
L’impressione è però che, nel privato, lo sciopero sia un rito sempre più stantio. Non c’è un tiro alla fune fra operai e padroni delle ferriere. Il lavoro cambia perché cambiano le competenze richieste e facilmente spendibili, la tecnologia non produce innovazione che va solo a vantaggio del capitale: anzi le imprese sono le prime a trovarsi immerse nel processo di cambiamento. Per mantenere i livelli occupazionali e migliorare le condizioni di lavoro, serve dialogo, non scontro. E non basteranno nemmeno sessanta giorni di sciopero per rendere sostenibile un sistema previdenziale che, in ragione della contrazione demografica, non lo è. 
Gli scioperi che abbiamo conosciuto nella seconda metà del Novecento si basavano su una premessa implicita: ci si appellava alla politica, pensando potesse risolvere tutti i problemi. Non era vero allora, lo è ancor meno oggi.