la Repubblica, 10 gennaio 2020
Il ritorno della cravatta
Sembrava morta, era solo svenuta. La cravatta vive un momento di resurrezione, se perfino supremi nomi della moda di lusso moderno, dall’americano Virgil Abloh per la sua linea Off-White a Hedi Slimane per Celine, da Alessandro Michele per Gucci a Kris Van Assche per Berluti, da Alessandro Sartori per Zegna a Kim Jones per Dior Homme l’hanno riammessa nelle loro collezioni invernali e – sorpresa! –, ancora di più in quelle per la primavera-estate. Addirittura, Dorian Tarantini, ex dj e ora fortunata mente creativa dietro il marchio underground M 1992, per le stagioni a venire ha stretto una collaborazione con Marinella, il più istituzionale e granitico produttore di cravatte italiano, anzi napoletano, per una serie di cravatte che celebrano l’autocompiacimento del “fighetto” esaltata da una sfilata ironica e venata di una certa qual nostalgia per gli anni Ottanta.
È massimamente simbolica nel ruolo di accessorio più squisitamente inutile del guardaroba maschile e allo stesso tempo più fortemente connesso a concetti di potere, autorità, corporativismo, conformità. E infatti, per i non famosi finora è stata relegata a funerali, matrimoni, richieste di mutuo in banca o poco gradite convocazioni in tribunale; mentre per banchieri, uomini della finanza e sovrani della politica, è un altro discorso, è l’uniforme della supremazia: anche se chi andava al Papeete a torso nudo ora va tv in blazer e cravatta blu.
Ma davvero è ancora così? Sì. No. Forse. La cravatta ritorna insieme a un rinnovato gusto per l’abito sartoriale, che è tutto tranne che tradizionale o, ancor peggio, formale. Perché, a pensarci bene, a vestirsi “classico”, nell’ultimo decennio, erano portieri d’albergo, assicuratori, guardie del corpo. O chi si presentava a un colloquio di lavoro. Ai loro datori di lavoro, invece, è stato permesso di andare in ufficio conciati come per la palestra, ma con tute in costosissimo cashmere, giubbotti sportivi e sneakers brutte ma carissime: un esempio emblematico è quello della banca d’affari americana Goldman Sachs il cui estroverso amministratore delegato, David Solomon, ha annunciato, con una nota interna destinata ai 36 mila impiegati, che abito scuro, camicia e cravatta non erano più obbligatori e si poteva lavorare con un abbigliamento più rilassato.
Se Mark Zuckerberg va in giro in infradito e T-shirt è perché la sua posizione può permetterglielo, ma poi si è presentato in tribunale in completo blu e cravatta intonata, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica. E questo vale per tutti gli uomini più ricchi e importanti dell’ultimo decennio, dal compianto Steve Jobs a Boris Johnson fino a Sergey Brin, fondatore di Google.In Italia, in Parlamento l’obbligo di indossare la cravatta è caduto alla Camera dei deputati, dove è sufficiente indossare una giacca per varcare la soglia del palazzo, mentre persiste solamente al Senato e al Quirinale.
I numeri parlano chiaro: solo sette anni fa il mercato di questo accessorio valeva 275 milioni di euro, scesi sotto i 200 nell’anno appena trascorso. Ma allora, perché sulle passerelle sta tornando in maniera così importante? Non è solo una questione di inevitabili corsi e ricorsi, ma di evoluzioni sociali. Non solo è un complemento praticamente sconosciuto ai ragazzi della Generazione Z, che la vedono dunque come una desiderabile novità, ma può tornare a rappresentare sé stessa, depotenziata del suo portato di aggressività fallica, come sosteneva Sigmund Freud. Oggi il completo più cravatta è solo un’opzione in più, e in molti casi assai migliorativa, di vestire un corpo maschile che dentro ha la coscienza di vivere nel primo decennio post #MeToo, nel trionfo del politicamente corretto, nell’uguaglianza sessuale, economica e politica tra uomini, donne, e tutte le sfumature di orientamento di genere che ci possono stare in mezzo. E la cultura popolare ne riporta le tracce come in una decalcomania: per esempio, si è molto parlato di Storia di un matrimonio, un film sul divorzio di una coppia in cui non si sa per chi parteggiare tra lui e lei. In termini di tematiche identitarie viviamo in tempi dove viene ridefinito il concetto di “virilità” e di “femminilità”. E se le regole ferree dell’abito formale di un tempo stanno per andarsene, qualche altra cosa sta prendendo forma: la nascita di un guardaroba che, avendo già digerito la lezione del genderless, ridisegna silhouette e cervelli. Senza più guerre tra i sessi.
Nel saggio Are men animals? recentemente uscito negli Stati Uniti, l’antropologo Matthew Gutmann compie una godibilissima ricognizione del concetto di “mascolinità” nel mondo e i risultati sono sorprendenti: ogni etnia, ogni continente, ogni credo ha il suo e non è sempre connesso con la forza, la prepotenza e il testosterone, anzi. “Essere uomini” è una costruzione culturale che muta nei suoi significati, tanto quanto l’“essere donne”. E così l’autore arriva a uno spassoso paradosso finale: e se fossimo tutti degli animali, femmine di ogni specie, tipo e vocazione comprese? Forse una consapevolezza simile ci permetterebbe di considerare la cravatta e l’abito formale per quello che sono: decori e abiti. Con buona pace di Freud. E delle femministe più intransigenti.