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 2020  gennaio 10 Venerdì calendario

Cercasi impresa perfetta

Si è sempre ritenuto che la creazione di valore per i soci fosse il riferimento per valutare la migliore governance societaria. Coerentemente, la normativa si è evoluta con l’obiettivo di garantire che del valore creato beneficiassero tutti gli azionisti, evitando che potessero essere espropriati dal gruppo di controllo o da manager autoreferenziali. Oggi però alle imprese si chiede di essere socialmente responsabili ( Esg, Environmental, Social and Governance) bilanciando l’interesse degli azionisti con quelli di fornitori, dipendenti, clienti, Stato, creditori, e società civile in generale (gli stakeholder).
Che cosa ha determinato il cambiamento? Quale dovrebbe essere il nuovo modello di governance? E quale il ruolo dello Stato nel capitale e nella governance delle imprese, specie in Italia?
Non credo che il cambiamento sia dovuto alla mutata sensibilità dei top manager: la famosa dichiarazione degli amministratori delegati di 180 corporation americane sembra mero marketing istituzionale. Né credo che la crescente domanda di investimenti con criteri Esg sia stato il motore del cambiamento: piuttosto è un adattamento al cambiamento, come dimostra il fatto che queste gestioni tendono a disinvestire da una società solo dopo la palese violazione di una regola Esg, piuttosto che imporre pro-attivamente il rispetto di queste regole.
Il cambiamento è stato imposto dalle mutate esigenze, sensibilità e gusti dei consumatori, e in particolare delle nuove generazioni che determinano le tendenze, domandano beni e servizi sempre più eco-compatibili, la cui produzione sia rispettosa dei diritti civili e dei lavoratori (basta vedere come cambia la pubblicità).
Questi consumatori sono anche cittadini che premono sui governi perché adottino norme efficaci per la tutela dell’ambiente e un maggior rigore nel perseguire la corruzione e il rispetto delle regole.
Per le imprese, seguire i gusti e le sensibilità dei propri consumatori è coerente con la ricerca della massimizzazione del valore. Come pure il maggior rispetto delle regole, se le sanzioni sono severe e le multe miliardarie. Emblematico il caso della Danone che dopo aver esitato, sulla scorta delle proteste degli agricoltori, ad abbandonare il latte americano fatto con mangimi Ogm, ha visto salire dal 30 al 40% la quota di mercato negli Stati Uniti del suo yogurt certificato no-Ogm, prodotto con latte russo! O la Volkswagen, che ha svoltato puntando decisamente sull’elettrico solo dopo il Dieselgate.
Una nuova governance dovrebbe dunque basarsi sulla massimizzazione del benessere degli azionisti, al posto del mero valore, poiché questi condividono presumibilmente gli stessi criteri di benessere dei cittadini-consumatori (è la proposta di Zingales e Hart); cosa che sta avvenendo con la crescente adozione di criteri Esg per gli investimenti. Importante sottolineare che la nuova governance dipenderebbe ancora dagli azionisti e non da una non platea di stakeholders di incerta e arbitraria definizione. Per quanto promettente, questa governance manca di oggettività, il benessere non si misura facilmente, e di universalità: l’idea di benessere dipende dalla cultura, come dimostra, per esempio, la diversa sensibilità tra Europa e Usa sulla produzione e uso delle armi, senza contare che il 60% del Pil mondiale è prodotto al di fuori da queste due aree del mondo, con criteri di benessere ben diversi. In fondo, è per questa ragione che ancora oggi si usa il Pil, un dato monetario, per valutare le politiche economiche, anche se un indicatore del benessere sarebbe più appropriato. Ma il suo limite più grande è l’essere pensata per società quotate ad azionariato diffuso nel momento in cui i mercati del capitale e del debito stanno diventando, anche negli Stati Uniti, sempre più privati (ovvero fuori dai mercati organizzati). In Italia, lo Stato è un importante azionista, direttamente o indirettamente, di imprese che vendono beni e servizi sul mercato; nonché il principale azionista in Borsa. Va subito chiarito che non si parla del ruolo dello Stato nell’economia, ma di quello di azionista, alla luce del cambiamento di governance che si chiede alle imprese.
Da questo punto di vista la performance dello Stato non potrebbe essere peggiore: è azionista di Finmeccanica e Fincantieri che producono armi e le vendono anche a Paesi dalle dubbie credenziali; di Eni, incriminata per corruzione internazionale; di Saipem, Trevi e Rai, con storie poco edificanti di governance; di Fs e Anas, non esenti da disastri che hanno messo a repentaglio la sicurezza dei cittadini; e accoglie la Cina come azionista di Cdp Reti (società che controlla le reti di pubblica utilità) nonostante quel Paese sia noto per lo scarso rispetto dei diritti civili e dei lavoratori, e produca più emissioni di carbonio di Usa e Europa assieme. Infine, è stato presente in tutte le industrie più inquinanti (come chimica e acciaio) senza che si sia mai preoccupato di convertirle, o di controllare il rispetto ambientale dopo averle cedute ai privati. Siamo in buona compagnia: la Francia non ha impedito la scandalosa governance nel caso di Renault-Nissan-Ghosn; né il Land della Bassa Sassonia, il Dieselgate della Volkswagen.
La crisi dell’industria bancaria e automobilistica del 2008 negli Usa dimostra che lo Stato azionista deve avere un ruolo in caso di chiaro fallimento di mercato, ovvero quando si è in presenza di una crisi sistemica che richiede capitali e assunzione di rischi eccessivi per il settore privato: in questo caso lo Stato entra, ricapitalizza, ristruttura e ri-privatizza rapidamente (magari realizzando un profitto come negli Usa). In Italia, purtroppo, si tende oggi a confondere il fallimento di mercato con quello di un’azienda e lo Stato vuole entrare come azionista in imprese che non hanno prospettive, in settori irrimediabilmente in declino (si legga l’intervista al ministro Gualtieri su Repubblica del 23 dicembre). La nuova enfasi sugli interessi degli stakeholders diventa un paravento per riproporre una politica assistenzialista “stile anni ’70”, che si dichiara dalla parte di sindacati e lavoratori ma non fa altro che sprecare risorse per prolungare l’agonia di imprese e lavoratori. I “tavoli di crisi” presso il ministero dello Sviluppo Economico sono centinaia; quanti sono i casi di aziende tornate a essere competitive e redditizie?