Corriere della Sera, 10 gennaio 2020
La sfida delle scacchiste
Negli scacchi l’obiettivo è dare «matto» al re, eppure il pezzo più importante è la regina. La componente femminile è però sicuramente meno rilevante tra i giocatori di vertice. Nessuna donna ha mai vinto, dal 1886 ad oggi, il Campionato mondiale; soltanto una, la cinese Yifan Hou, è attualmente tra i primi cento al mondo, al 75esimo posto.
Da tempo ci si interroga su questa differenza di genere in un gioco dove non contano i muscoli, e la parità non dovrebbe essere in discussione. Per ovviare al gap, la Federazione internazionale degli scacchi (Fide) sta provando la via dell’incentivo economico. Il montepremi del Campionato mondiale femminile in corso a Shanghai (e poi a Vladivostok) è stato innalzato a 500 mila euro, che è ancora la metà delle cifre in palio per il titolo open (aperto a maschi e femmine), ma rappresenta un incremento del 150% rispetto all’edizione precedente. «Stiamo cercando di aumentare il prestigio del gioco femminile e anche di colmare il divario retributivo con gli uomini», ha spiegato Nigel Short, un passato ad altissimo livello, ora vicepresidente della Fide.
A contendersi la vittoria, in un torneo che prevede 12 incontri, sono la campionessa uscente, la cinese Ju Wenjun, 28 anni, e la sfidante russa Aleksandra Goryachkina, 21. Dopo tre pareggi, ieri la cinese ha vinto la prima partita. Alla vigilia, l’astro nascente Goryachkina ha manifestato apprezzamento per le novità, ma ha precisato che è motivata a vincere il titolo, non i soldi (300 mila euro alla prima, 200 alla sconfitta).
Molti ritengono che il fatto che è improponibile, al momento, che una donna possa insidiare il primato di Magnus Carlsen, sia dovuto alla circostanza che ci sono poche praticanti rispetto agli uomini e di conseguenza è più difficile raggiungere l’élite. Un montepremi così alto dovrebbe spingere sempre più ragazze a cimentarsi con alfieri e cavalli, innescando un sistema virtuoso che attiri attenzione e pubblicità.
Hou, la numero 75 al mondo, ritiene che «le donne si allenino meno duramente rispetto agli uomini. Alle giovani ragazze viene detto che esiste una distinzione di genere, che devo fare del loro meglio nelle sezioni femminili ed essere appagate per questo. Senza motivazioni più alte, è difficile migliorare come i coetanei maschi».
C’è invece chi ritiene che è discriminatorio proprio organizzare campionati divisi per sesso. L’ungherese Judit Polgár, considerata la più grande scacchista di tutti i tempi, non volle mai partecipare a tornei femminili puntando al primato assoluto. «Il nostro obiettivo deve essere che donne e uomini competano su un piano di parità» ha chiarito.
Lo psicologo australiano Robert Howard, che si è dedicato allo studio dell’apprendimento compiendo ricerche sugli scacchi, è convinto che non dipende tanto dallo scarso numero di giocatrici, semmai «la predominanza maschile può essere dovuta in parte alle differenze sessuali nelle abilità innate». Lo stesso Nigel Short, il vicepresidente della Federazione internazionale che adesso difende l’aumento del montepremi per ridurre le differenze, nel 2015 suscitò polemiche sostenendo che «il cervello di uomini e donne è diverso. Uno non è migliore dell’altro, abbiamo soltanto competenze diverse».
In ogni caso il tema è particolarmente sentito, almeno quanto la difesa e promozione dell’antico gioco tra bianchi e neri. Jennifer Shahade, direttrice del programma femminile della federazione statunitense, sostiene che in un’epoca dove la mente è concentrata sull’immediato, sull’aspetto visivo e costantemente distratta, uomini, bambini e specialmente donne e ragazze hanno bisogno più che mai degli scacchi».