Avvenire, 10 gennaio 2020
Lo scandalo delle scommesse nel calcio, 40 anni fa
L’immagine simbolo su 90° Minuto, in diretta su Rai 1 una pantera della Polizia sul tartan della pista d’atletica dell’Olimpico. Stadio deserto, dal cielo plumbeo pioggia a piccole gocce come lacrime sul volto di tifosi increduli. Alto tradimento, la perdita dell’innocenza tra le grinfie di avidi allibratori e scommesse clandestine. A sei zeri gli accordi non rispettati, la martingala saltò su risultati concordati a tavolino. «Il 7 Gennaio incontrai di sera il Cacciatori, nel night romano Number One. Mi chiese se potevo cambiargli un assegno e me ne consegnò uno da 15 milioni». Bookmakers bidonati da tariffari e quote, allibratori, truffa e verdura in odore di malavita organizzata, usurai e cravattari latitanti: quarant’anni fa arrestarono il calcio italiano, poco prima dell’ultimo Europeo in casa, tra il terremoto in Irpinia, lo scandalo Italcasse e le misteriose stragi di Ustica e Bologna, quando l’addizionale dello stipendio di un calciatore poteva essere come una polizza assicurativa. Pallone criminale. «C’è un portiere che ha scommesso contro se stesso». In un rocambolesco blitz, la Guardia di Finanza fece irruzione negli spogliatoi di Pescara, manette ai polsi dei laziali Cacciatori, Wilson e ai gioielli di famiglia Giordano e Manfredonia. «Incaricai mio fratello di prelevare 20 milioni da un libretto al portatore che abbiamo in comune presso la Banca Agricola Milanese di Vimercate e di consegnare il pacco a Morini». Sirene spiegate pure a Milano San Siro, reclusi il presidente rossonero Felice Colombo con Morini e saracinesca Ricky Albertosi. Cronaca da Tutto il calcio venduto per venduto (Mondadori) di Aneglo Maria Perrino, primo instantbook che faceva il punto sul più grande scandalo, fino ad allora del pallone nazionale. Dopo l’inchiesta su Paese Sera, spifferi sui giornali e indagini su partite sospette, un avvocato denunciò anche alcuni arbitraggi. Domenica 23 Marzo 1980 la Procura di Roma spiccò 27 mandati tra comparizione e cattura, arrestati 11 calciatori tra interrogatori fiume e accertamenti sui conti bancari, cauzione da 105 milioni di lire complessivi per porre fine a dieci giorni di carcere dentro Regina Coeli. L’onta del misfatto nel codice penale non costituì reato, nonostante l’ombra delle mani fameliche della banda della Magliana e della camorra dietro i due principali manovratori, un fruttivendolo e un ristoratore addentrati nel mondo del pallone. E dopo la partita arrivano le Fiamme gialle. Lazio e Milan i più grossi club finiti nella rete, poi il Perugia di Paolo Rossi, Avellino, Genoa, Lecce e Palermo. Ma pure il sospetto su Bologna e Juve. Rumors e conseguenti polemiche mai sopite sui filoni d’inchiesta paralleli, giustizia sportiva e ordinaria per uno scandalo epocale nei deferimenti disciplinari che rivoluzionarono campionati e classifiche di Serie A e B. «Troppa fretta e scarsa ponderazione. Sono vent’anni che esiste un Totocalcio sommerso, una schedina sulla quale si punta di nascosto. Fino ad ora hanno finta di non accorgersene, adesso all’improvviso si grida allo scandalo». Il leccese Merlo disse che la Federcalcio allora presieduta da Artemio Franchi sapeva tutto, molto tempo prima.
La storia parte almeno dal 1979. Perquisizione e cinque arresti in un appartamento di Via Cassiodoro in zona Prati, il vicequestore Gennaro Monaco stilò un dossier completo, ma chissà perché, poi rimase sepolto sotto alle sabbie mobili della pretura. Roba da mezzo miliardo a settimana con tanto di ricevute, contanti e assegni, si raccoglievano scommesse illecite su calcio, tennis e corse d’ippica. Prima il Guerin Sportivo («esiste e prospera il Totocalcio clandestino, gestito da veri e propri contrabbandieri della schedina») e poi Giuliano Prasca, ex assessore comunista in Campidoglio, catapultarono il caso sui giornali. «Il gioco pilotato da un gruppo di boss che muovono decine di raccoglitori a stipendio fisso o al 10 per cento – scrive Prasca –. Quote e ricevute alla luce del sole. Si parla di un fatturato (esentasse) molto vicino a quello del Totocalcio. Con milioni di scommesse su una partita diventa legittimo il sospetto della manipolazione. Non era un segreto, in molti sapevano: «6 Gennaio 1980, Milan- Lazio, la sera prima mi arrivò in ufficio una telefonata, è truccata, fai qualcosa», in un libro ricorderà il giornalista Michele Plastino. Tra confessioni, inganni, ricatti e un buco quasi miliardario, l’impennata arrivò con l’inatteso colpo di scena: un esposto autodenuncia di due grandi accusatori, firme in calce Massimo Cruciani e Alvaro Trinca. Licenza elementare, Cruciani gestiva un magazzino di frutta e verdura al Portuense, ricco conto in banca e giro d’affari di centinaia di milioni con grandi forniture per alberghi, ristoranti, ospedali e perfino commerci ben remunerati in Vaticano. Incensurato per la Questura (solo un «pregiudizio generico», cioè si accompagnava spesso a pregiudicati della mala romana), ai mercati generali lo conoscevano per via del padre Ferruccio, scaltro titolare di un banco a Porta Cavalleggeri già prima dell’ultima guerra. Fu proprio il padre ad imbeccarlo verso la gallina dalle uova d’oro. Soldi facili subito. In fondo, i giocatori di Roma e Lazio il figlio li conosceva bene, tanto da potersi imbucare nel ritiro della Nazionale di Bearzot (di sicuro ignaro il “Vecio”), amico di famiglia con Negrisolo, Cordova e Morini, posò in foto col mitico Pelè. Alcuni frequentavano il ristorante La Lampara in Via della Penna, ritrovo pure di attori, po-litici, scrittori e gente nota. Trinca era il proprietario, giocava ai cavalli all’ippodromo Tor di Valle, lo soprannominarono “er pulciaro” perché toglieva i parassiti dai pesci prima di esporli sul bancone. Cugino di Gina Lollobrigida, trasformò il ristorante in sala scommesse. Ogni venerdì Trinca e Cruciani «partivano da Roma con le borse piene di soldi, per direzioni diverse e andavano a scommettere in varie città d’Italia. Un giro d’affari per centinaia di milioni a settimana». Denaro giocato a credito, sulla parola. Fino al buco irreparabile nelle false promesse di calciatori inaffidabili, ma pure ingenui e faciloni degli anni ’80 in cui ancora non esisteva il procuratore personale e nemmeno Internet su cui puntare magari partite del campionato cinese come è accaduto nelle reteirate Scommessopoli degli anni 2000. «Sono rovinato, se non mi aiutate, vi sparo». L’appello disperato che conteneva il dramma e la sofferenza del calciatore della Lazio Maurizio Montesi, pubblicato su Repubblica da un giornalista d’inchiesta di razza come Oliviero Beha il quale trovò la conferma dell’omessa denuncia. Prima di ritrattare, su un letto d’ospedale dopo un grave infortunio di gioco, Montesi si lasciò sfuggire il rifiuto alla combine di Milan-Lazio. Scesero in piazza i tifosi, insulti e monetine contro gli juventini Boniperti e Trapattoni chiamati a deporre, un corteo di ultrà rossoneri per le vie di Milano, gli avellinesi ad inneggiare i beniamini ritenendoli estranei, mentre i laziali circondarono il palazzo della corte d’appello federale chiedendo a gran voce di non pagare colpe non commesse. Nel procedimento penale la pubblica accusa chiese complessivamente 28 anni di reclusione per i 38 imputati, fino alla pena massima di due anni di galera. Tutti assolti. «È chiaro che la questione del diritto ha avuto un’importanza fondamentale», disse il giudice Monsurrò preannunciando un appello mai iniziato. A tavolino finì invece con la retrocessione in B Lazio e Milan, penalizzate di cinque punti Perugia, Avellino, Bologna, Palermo e Taranto. Nel 2006 la storia si è ripetuta, e come spesso accade, in maniera ancora più eclatante con scudetti revocati e addirittura la prima volta della Juventus retrocessa per combine in Serie B. Una scia che è proseguita ancora e non è detto che lo spettro di Scommessopoli non sia sempre in agguato nell’eldorado del pallone dai mille interessi e altrettanti intrighi di palazzo.