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 2020  gennaio 07 Martedì calendario

Intervista a Riss, direttore di Charlie Hebdo

«Lo slogan Je suis Charlie era fondato su un equivoco. Molti si sono accorti di volerci sostenere come vittime del terrorismo, ma non come giornale». C’è un fondo di amarezza nelle parole di Laurent Sourisseau, in arte Riss, mentre ricorda lo slancio di solidarietà provocato dalla strage diCharlie Hebdo . Il disegnatore ferito al braccio durante l’attentato, si è ritrovato a essere il direttore del settimanale satirico nei giorni subito dopo il massacro del 7 gennaio 2015. Cinquantatré anni, è un uomo burbero, riservato, così diverso in apparenza dagli scanzonati e goliardici Wolinski e Cabu, o dal frenetico Charb, uccisi quella mattina mentre discutevano di articoli e vignette. Lo incontriamo in un ufficio accompagnato dalla scorta. Riss ha ripercorso la strage e le sue conseguenze in un libro a tratti spietato, dal titolo Une minute quarante-neuf secondes , “Un minuto e quarantanove secondi”, il tempo che ci è voluto a due giovani francesi trasformati in fanatici islamici, i fratelli Kouachi, per riuscire in parte a sterminare una redazione.
Nel libro traspare una forma di rabbia. Perché?
«L’attentato di Charlie Hebdo è stato un’esecuzione politica. Purtroppo oggi ho l’impressione che questa specificità si sia persa nell’ondata di attacchi successivi. Forse accade perché è politicamente più semplice parlare della sofferenza delle vittime che di caricature, libertà di espressione e di fondamentalismo religioso».
Sul fanatismo religioso lei denuncia il silenzio di alcuni intellettuali francesi, li definisce addirittura “collaboratori” come ai tempi dell’occupazione nazista.
Non è un termine troppo forte?
«Non sto dicendo che aderiscono all’ideologia totalitaria dell’islamismo ma con la loro prudenza e la loro strategia di elusione, ne facilitano la diffusione».
Se la prende con la sinistra?
«Quando abbiamo cominciato a denunciare l’islamismo non siamo stati presi sul serio perché eravamo un giornale satirico, creato da persone marginali. Nel 2007, durante il processo contro di noi per la pubblicazione delle caricature su Maometto, molti dissero che si trattava di una banale disputa per delle vignette. Solo dopo l’attentato, è diventato chiaro che la questione era ben più grave e profonda».
Oggi vi sentite di nuovo isolati?
«Per piacere a tutti, avremmo dovuto cancellare ciò che amiamo, ovvero l’umorismo più nero, la provocazione. Sapevamo che ci sarebbero state delusioni, incomprensioni, polemiche. Era il prezzo da pagare perché Charlie restasse Charlie . Il grande Cavanna l’aveva detto fondando Hara Kiri (da cui è natoCharlie Hebdo , ndr ): non facciamo un giornale per 50 milioni di persone, ma per 30mila lettori che ci capiscono».
A proposito, il numero di Charlie pubblicato dopo l’attentato fu stampato in milioni di copie. Oggi quanto vendete?
«Abbiamo mantenuto circa 30mila abbonati. Nelle edicole vendiamo 25mila copie. Una volta passata l’ondata di emozione siamo ridiventati come tutti i giornali.
Dobbiamo convertirci al digitale, diversificare l’offerta al lettore. E i nostri costi sono aumentati per garantire la sicurezza».
C’è stata una lite interna sul capitale del giornale. A che punto è l’azionariato?
«Con Charb (l’ex direttore ucciso,
ndr ) avevamo ciascuno il 40 per cento delle azioni. Dopo la sua morte ho dovuto giocare un ruolo un po’ duro e impopolare. Sentivo di dover mettere in salvo il giornale. Non era possibile dare azioni a chiunque. Solo ora che ci siamo assestati, sono entrati tre nuovi azionisti. Io ho ancora il 63 per cento del capitale».
Nel libro parla poco degli assassini, i fratelli Kouachi.
«Sono andato a seguire il processo di Abdel Kader Merah (fratello dell’islamista autore degli attentati a Tolosa nel 2012, ndr ) e ho capito che un dialogo con queste persone è impossibile. Si sentono in comunicazione diretta con Dio».
Cosa si aspetta dal processo sugli attentati previsto in primavera?
«Sarà frustrante perché i fratelli Kouachi sono morti e l’inchiesta non ha permesso di risalire ai mandati».
Sogna di ritrovare una vita senza guardie del corpo?
«Il lutto della mia vita precedente mi accompagnerà per sempre. Anche se non avessi più poliziotti che mi seguono, so che non ritroverò mai un certo candore».
Nel libro descrive l’ultimo viaggio in metropolitana quella mattina.
«È pazzesco. Per me è diventato più facile andare alla mostra di Leonardo da Vinci che in metropolitana».
Come vede il futuro?
«Sono come Charlie : ho una forma di pessimismo-ottimismo. Quando fai satira, metti sempre il dito dove fa male ma speri che denunciando certi problemi scuoterai le coscienze».
Ridete ancora quando fate il giornale?
«Certo, lo scopo è proprio quello. Su questo, non è cambiato nulla».
E come va il suo braccio?
«Si stanca facilmente, non posso più di disegnare come prima».