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 2020  gennaio 07 Martedì calendario

Contro l’ideologia dei «beni comuni»

Democrazia ed eguaglianza sono i due poli entro cui si svolge l’itinerario politico della modernità, anche se il loro rapporto è assai più antico. Ma che tipo di eguaglianza, e come istituita? In sostanza il libro di Aldo Schiavone Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia (Einaudi) cerca di rispondere a queste domande e lo fa con gli strumenti propri di uno studioso di storia e del diritto quale è l’autore, attratto peraltro anche da un forte richiamo per la riflessione filosofica.
Il taglio prescelto è quello cronologico e dunque il libro inizia con un resoconto puntuale delle vicende occorse all’idea di eguaglianza a partire dalle esperienze della Grecia classica, alla quale risale non a caso la prima affermazione giunta fino a noi circa la sostanziale identità fra tutti gli esseri umani, che dobbiamo al filosofo ateniese Antifonte, («Per natura siamo tutti assolutamente eguali, sia greci sia barbari»). Resoconto puntuale anche se nel prosieguo non riesco a spiegarmi quella che secondo me è la sottovalutazione del ruolo del Cristianesimo. Al quale Schiavone riconosce sì un «contenuto rivoluzionario», ma lo limita alla fondazione di «una dialettica mai prima concepita (…) tra eguaglianza e singolarità» grazie all’inedito concetto di «persona», laddove però, aggiunge, la nuova religione avrebbe spostato al regno dei cieli qualunque effettività di quell’eguaglianza pure stabilita in linea di principio. L’avrebbe insomma «sterilizzata» riducendola di fatto a «una dichiarazione senza conseguenze». 
Senza conseguenze? Per la verità il Cristianesimo, a me sembra, fu ben altro che una singolare «teologia dell’eguaglianza» o un’ideologia politica mancata. Fu un’autentica «rivoluzione della coscienza morale» (Croce) che fin dall’inizio, tanto per dirne qualcuna, valse come mai era accaduto prima a condizionare e limitare il potere politico detentore della forza, a sovvertire per sempre il rapporto tra l’«alto» e il «basso» della società, tra uomo e donna, a legittimare la figura dei poveri e dei loro diritti: il tutto in una misura destinata a segnare per sempre le società europee nel loro intero sviluppo. Avrebbe mai potuto esserci addirittura anche l’Illuminismo, per esempio, senza il retroterra culturale cristiano? 
È con l’Illuminismo, per l’appunto, che inizia il vero incontro tra la democrazia e l’eguaglianza di cui dicevo all’inizio. Ed è qui, quando prendono avvio l’esperimento rivoluzionario americano e quello francese, che emergono due tesi importanti del libro: da un lato la prospettiva fortemente unitaria che secondo l’autore terrebbe insieme le due rivoluzioni, e dall’altro lato la maggiore radicalità nel segno dell’eguaglianza che caratterizzerebbe quella americana. 
Sono due tesi che, contraddicendo una tradizione storiografica consolidata, sono tuttavia obbligate, per farlo, a trascurare quella che a mio parere resta una differenza fondamentale tra i due avvenimenti. Vale a dire il fatto che quella americana prima e più che una rivoluzione fu in realtà una guerra d’indipendenza anticolonialista (da qui il suo carattere necessariamente costituente e il rapporto senza mediazioni fra popolo e istituzione: come avrebbe potuto essere diversamente?). In realtà, infatti, se si guarda alla Costituzione degli Usa e al Bill of Rights del 1791 (i primi dieci emendamenti) allora ne appare più che evidente l’ispirazione scevra di qualsiasi egualitarismo bensì fortemente garantista in senso liberale, attentissima a proteggere i diritti dell’individuo. Laddove la dichiarazione francese del 1789, invece, non solo subordinava pressoché tutti i diritti che proclamava alle condizioni fissate dalla «Legge» (cioè in pratica dalla volontà di qualunque maggioranza parlamentare), ma, a differenza di quella americana, non poneva nessuna corte o giuria a tutela dei suddetti diritti. Anche in questo caso si trattava di un esito inevitabile del vacuo democraticismo roussoiano, che con l’idea di sancire il potere di una imprecisabile «volontà generale» e il trionfo della «virtù» aveva l’unico risultato pratico di bandire ogni efficace garanzia di libertà individuale (oltre che ogni effettiva possibilità di governo).
In ogni caso, a imprimere l’accelerazione catastrofica del processo rivoluzionario francese che condusse a Termidoro non fu, come sembra credere Schiavone, uno scontro sull’eguaglianza – tra la conseguita eguaglianza formale dei diritti e l’esigenza di una più sostanziale eguaglianza economico-sociale. E neppure l’impossibilità d’instaurare l’eguaglianza con gli strumenti della politica. Fu piuttosto la consapevolezza sempre più tragicamente avvertita da Robespierre e dal gruppo dirigente giacobino che tutto il quadro ideale sul quale essi avevano concepito il proprio impegno e la propria azione era in realtà privo di fondamenta: perché la «volontà generale» era un sogno (dal momento che in realtà il «popolo» vero – non quello finto di Rousseau – era lacerato da mille contrasti di interessi e di opinioni), e poi perché per darle qualche concretezza non era disponibile alcuna magica dose di «virtù», ma semmai solo il terrore. 
A essere dunque messo definitivamente fuori gioco dalla Rivoluzione francese fu il nesso virtù/eguaglianza, che da Platone a Rousseau aveva tenuto il campo della riflessione sull’eguaglianza medesima, facendone una cosa in sostanza di filosofi, al più di giuristi. Nell’Europa post-rivoluzionaria, invece, il gigantesco mutamento materiale rappresentato dalla rivoluzione industriale e dall’estensione della produzione capitalistica provvide a orientare le cose ben diversamente, sostituendo la filosofia con l’economia. Da allora in poi il vero confronto dell’eguaglianza sarà perciò con il profitto e con le ragioni della crescita economica. Mentre sempre di più, sul piano della concreta esperienza storica, il godimento di eguali diritti civili e politici costituisce di fatto, con il progressivo allargamento del suffragio, l’unico concreto orizzonte possibile dell’eguaglianza, ormai avviata – come capirà in America Tocqueville – a divenire la struttura culturale di fondo capace di permeare totalmente di sé le moderne società democratiche.
In questa che forse è la parte più viva del libro, piena di osservazioni di grande acume sui nuovi caratteri del processo storico che allora vide la luce, spiccano le pagine belle e convincenti in cui Schiavone ripercorre il tormentato itinerario di Marx, impegnato a cercare di dare un fondamento scientifico, e quindi certo, all’avvento di una vera e definitiva eguaglianza. E ne individua giustamente il motivo del fallimento, a parte ogni altro, nell’illusione che potesse aversi una stabile condizione di eguaglianza tra gli uomini senza il ricorso ad alcun intervento politico e in assenza di una qualsiasi effettiva statualità.
Curiosamente, però, è il medesimo errore in cui a mio giudizio incorre l’autore quando – dopo aver constatato l’invincibile difficoltà che pone ad ogni nuovo progetto radicalmente egualitario il principio d’individualità, ormai troppo fortemente radicatosi nell’antropologia diffusa delle nostre società – si dà ad immaginare un eventuale surrogato di quel progetto adatto al nostro tempo. E crede di trovarlo, ispirandosi a lontane suggestioni spinoziane, nella possibilità di un’eguaglianza per così dire «impersonale», fondata su «occasioni continue di comunione solidale», su una «parità legata soltanto alla fruizione di determinate risorse». Cioè su quelle risorse che si è ormai convenuto di chiamare «beni comuni»: vale a dire i beni riguardanti «la vita dell’umano innanzi tutto» (alimentazione, acqua, salute, accesso all’informazione e all’istruzione). Il tutto naturalmente, aggiunge l’autore, nel quadro di «un’economia produttrice di valori d’uso e non di scambio». 
Ma come farà il progetto di questo, chiamiamolo «benecomunismo», a non essere soggetto al medesimo destino perverso che fin dalla culla afflisse il «comunismo» realizzato nel secolo scorso? Prodotti fuori dal mercato, anche i «beni comuni», infatti, dovranno essere inevitabilmente prodotti sotto il controllo di un apparato politico-amministrativo, in tal modo padrone di fatto della vita dell’intera società (e designato da chi? e in che modo?), il quale apparato, poi, dovrà anche trovare le risorse necessarie, decidere dove e come farlo, a spese di chi, ecc. ecc., secondo una catena di cause ed effetti che conosciamo fin troppo bene.
Non vorrei sembrare disfattista, insomma, ma mi sembra che almeno dalle nostre parti per l’eguaglianza il futuro non si annunci proprio facilissimo.