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 2020  gennaio 07 Martedì calendario

Tutti gli errori di Albert Einstein

Albert Einstein, genio di straordinarie intuizioni ma anche di grandi ripensamenti. La sua mente era un continuo rielaborare, alla ricerca di risposte alle domande che, diceva, si era posto da bambino. «Bisogna essere particolarmente critici nei confronti del proprio lavoro» ripeteva a se stesso e a chi gli stava intorno. Ammetteva l’errore senza incertezza e andava oltre. Così, nel silenzio dell’Ufficio brevetti di Berna mentre da «tecnico esperto di terza categoria» valutava proposte di marchingegni proiettati al successo industriale, i suoi pensieri volavano alle radici della fisica conquistando nel giro di appena sette mesi sei scoperte che sarebbero bastate per altrettanti premi Nobel. Era il 1905 e per una di queste, dedicata all’effetto fotoelettrico, avrebbe ricevuto il Nobel per la fisica nel 1921 spiegando come la radiazione elettromagnetica si manifestasse in forma di «quanti» battezzati poi «fotoni» (le particelle della luce) contribuendo in maniera determinante allo sviluppo della meccanica quantistica. Ma era scettico e polemico nei riguardi della teoria dei quanti nata con il fisico tedesco Max Born nel 1900, arrivando a formulare una battuta rimasta famosa: «Dio non gioca a dadi». 
Tra le conquiste del 1905, battezzato per questo «anno mirabile», come racconta Leonardo Gariboldi nel primo volume della collana Grandangolo dedicato appunto a Einstein, c’era anche la formulazione della teoria della relatività ristretta dove veniva spiegata l’equivalenza tra materia ed energia sintetizzata con la celebre formula diventata un simbolo. Dieci anni dopo avrebbe annunciato la teoria della relatività generale nella quale descriveva le proprietà dello spazio-tempo con quattro dimensioni precisando che la gravità non è altro che la manifestazione della curvatura dello stesso spazio-tempo. L’osservazione di un’eclissi solare nel 1921 misurando la deviazione della luce di una stella causata dalla gravità del Sole la confermava. A quel punto Einstein diventava un mito popolare che ancora oggi resiste inossidabile. 
Eppure, il grande genio nella costruzione delle sue idee procedeva su concezioni non sempre corrette. Ad esempio riteneva che l’universo fosse statico, immobile e quando il fisico belga George Lemaitre utilizzando la stessa teoria della relatività dedusse che, invece, l’universo si espandeva, lo criticò aspramente. Per mantenere la staticità Einstein infatti aveva introdotto nelle equazioni un valore battezzato «costante cosmologica». Quando nel 1929 l’astronomo americano Edwin Hubble dimostrò come le galassie si allontanassero rivelando l’espansione dell’Universo Einstein riconobbe di aver sbagliato scusandosi con Lemaitre. E affermò di aver compiuto il più grave errore della sua vita. Però, quando negli anni Novanta si scoprì che l’universo non solo si espandeva ma addirittura accelerava grazie ad una «energia oscura» il valore della costante cosmologica aiutò a spiegare l’inattesa caratteristica. Insomma, sembra che Einstein avesse ragione anche quando riteneva di aver sbagliato. 
Un clamoroso caso di ripensamento einsteniano è legato alle onde gravitazionali, la cui scoperta è stata annunciata nel 2016. Esattamente un secolo prima il grande fisico le aveva previste nella sua teoria della relatività. Ma vent’anni dopo, nel 1936, rivedendo le formule non ne era più convinto. «Insieme a un giovane collaboratore sono arrivato al risultato interessante che le onde gravitazionali non esistono, sebbene fossero state assunte con certezza alla prima approssimazione» scriveva all’amico Max Born. E preparava un articolo con il titolo: «Esistono le onde gravitazionali?» ritrattando il celebre risultato e inviandolo alla rivista Physical Review Letters. Il fisico incaricato della revisione del testo scoprì delle irregolarità e rispedì il documento all’autore chiedendo di rivederlo. Einstein, infastidito, scrisse alla rivista dicendo che non li aveva autorizzati «a mostrarlo agli specialisti prima che venisse stampato». Ritirò quindi l’articolo e lo spedì al meno noto Journal of Franklin Institute di Filadelfia che lo diffuse. Ma con una sorpresa: la conclusione era diversa e il testo non sosteneva più l’inesistenza delle onde gravitazionali. Era accaduto che l’anonimo recensore (in realtà l’illustre fisico Howard Percy Robertson) avesse fatto amicizia con il giovane collaboratore (diventato poi il famoso Leopold Infeld) con cui il genio aveva scritto l’articolo. Robertson gli spiegò gli errori, che furono subito corretti. Einstein, ancora una volta accettò. Il mito poteva continuare.