Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2020
Il riso del Myanmar minaccia l’italiano arborio
Un anno è passato, da quando la Ue ha ripristinato i dazi sull’importazione di riso indica, a chicco lungo, dalla Cambogia e dal Myanmar. Già all’inizio del 2018 lo sbarco in massa del riso asiatico protetto dalla clausola “Everything but the arms” (tutto tranne le armi) aveva stravolto al ribasso il mercato italiano, costringendo molti agricoltori a rinunciare alla semina. Allora, il riso arborio made in Italy era passato da 70 a 30 euro al quintale, praticamente i risicoltori lo coltivavano sottocosto.
Com’è andata, invece, nel 2019 con i dazi doganali a 17,5 euro al quintale? Meglio, dicono i produttori: «Da marzo l’import dalla Cambogia di riso a chicco lungo, il cosiddetto indica, è diminuito di circa il 30% – racconta Emanuele Occhi, responsabile del comparto riso per la Coldiretti – e anche il prezzo riconosciuto ai nostri agricoltori è aumentato: durante la campagna 2017-2018, una delle peggiori, lo pagavano solo 29 euro al quintale, mentre pochi mesi dopo il ripristino delle clausole di salvaguardia il suo prezzo era già risalito a 31-33 euro al quintale».
La nuova minaccia
L’Italia, da sola, produce il 50% di tutto il riso europeo, esporta il 60% della produzione e all’estero, per la maggior parte, vende proprio il riso lungo, quello su cui sono tornati i dazi dall’anno scorso. È quindi indubbio che dalle clausole Ue il nostro export ne abbia guadagnato. Ma in termini percentuali l’indica rappresenta solo un quarto di tutto il riso coltivato nel nostro Paese. Il reddito del 75% dei risicoltori italiani si regge sulla cosiddetta varietà japonica: arborio, carnaroli, tutto il riso che si usa per il classico risotto. E qui la situazione è meno rosea: «L’Europa – racconta Occhi – con le sanzioni ha bloccato l’arrivo del riso indica, ma il Myanmar è anche un grande produttore di varietà japonica». Così, una volta bloccato il riso lungo, ha riversato verso la Ue tutto il suo arborio. E i prezzi dell’arborio made in Italy hanno cominciato a calare, esattamente come è successo due anni fa: all’inizio del 2019 gli agricoltori lo vendevano a 50 euro al quintale, oggi è già sceso a 40. «Mentre le importazioni di riso japonica dal Myanmar – conferma Occhi- sono aumentate del 300%».
Lo stallo della Ue
Ecco perché, dicono a gran voce i coltivatori, l’Unione europea deve intervenire ancora: il riso birmano, uscito dalla porta, è semplicemente rientrato dalla finestra. «L’Italia – ricorda Occhi – ha già chiesto l’intervento della Commissione Ue, la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova ha avanzato la richiesta a Bruxelles di ripristinare i dazi anche sul riso japonica». Questa volta, però, l’Italia è un po’ più sola, perché di fatto in Europa è l’unico grande produttore di questa varietà di riso. Due anni fa, quando si chiedevano i dazi sull’indica, c’era tutto il Centro e il Nord Europa dalla sue parte. Come produttori, ma anche come consumatori.
Al momento, la Commissione si è messa alla finestra, prendendo la decisione di mettere sotto osservazione la Cambogia e il Myanmar per le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Così, da febbraio scorso risulta aperta una procedura per la revoca delle preferenze tariffarie, il cui iter dovrà concludersi entro l’11 febbraio 2020. Poi si vedrà, dicono gli agricoltori.
La posizione dell’industria
E i trasformatori italiani? Per loro, le clausole di salvaguardia introdotte a gennaio dell’anno scorso dovrebbero aver segnato un aumento di prezzo. «Il costo della materia prima è cresciuto, ma nel complesso per il settore i dazi sono stati una scelta positiva», ammette Mario Francese, amministratore delegato di Euricom Spa, che stando alla classifica delle società alimentari italiane stilata dalla Comar è la più grande industria del riso made in Italy. Tra i suoi marchi c’è anche Curtiriso, in Europa possiede 11 impianti e conta di confermare il fatturato 2019 a quota 630 milioni di euro. «Come Euricom – racconta Francese – acquistiamo più o meno il 25% del riso prodotto in Italia. Nel complesso, una parte rilevante della nostra materia prima, diciamo il 65-70%, è di origine europa, ma il resto lo dobbiamo importare. Del resto l’Europa non è in grado di produrre tutto il riso che le occorre». Anche perché, per fortuna, i consumi di riso in Europa sono aumentati, e in Italia ancora di più: «Negli ultimi cinque anni – racconta con una certa soddisfazione Farnese – gli europei hanno comprato il 7% di riso in più, gli italiani addirittura il 25%. Il merito non è solo dell’aumento delle diete senza glutine, ma anche e soprattutto dei consumi etnici, in primo luogo dei ristoranti giapponesi, e dei nuovi prodotti nati come derivati del riso». Bibite, biscotti, soprattutto gallette: «In Italia – dice Francese – ormai si consumano 70 milioni di gallette. È per questo che anche noi ci stiamo concentrando sull’innovazione». Nella riseria Curtiriso di Valle Lomellina, in provincia di Pavia, «che è la più grande raffineria di riso di tutta l’Europa», come ricorda Francese, si lavora per esempio alle nuove mini-gallette. Molto simili alle patatine fritte, ma più sane.
Se il riso asiatico prende la via dell’Europa, la miglior contromossa, secondo Francese, è quella di mandare il riso italiano in Cina. Un po’ come vendere frigoriferi agli eschimesi? «No, io voglio portare a Pechino il nostro riso per risotti – dice Farnese – finalmente, dopo dieci anni di trafile burocratiche, a fine gennaio il nostro governo dovrebbe andare in Cina a ratificare il protocollo per l’import. In quel Paese ci sono più di 1,3 miliardi di abitanti, basterebbe un piatto di risotto all’anno ciascuno per diventare ricchi».