Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 07 Martedì calendario

L’uomo che apre e chiude il duomo di Verona

Perché sia conosciuto da prefetti, questori, comandanti dei carabinieri, della Guardia di finanza e della polizia municipale, capi della Mobile, funzionari del Comune e di altri enti, sarebbe già di per sé un mistero gaudioso. Il fatto è che Rino Mazzola, 66 anni, originario di Caprino, figlio di Mario, defunto capofabbrica alla Molveno Cometti, e di Giovannina, che sta per compiere 91 anni, è ben noto (e spesso dà del tu) anche a cardinali, vescovi, magistrati, avvocati, imprenditori, cronisti di nera, presidenti di sodalizi e circoli sportivi, barellieri della Croce verde e financo al luogotenente della stazione dell’Arma più vicina al mio paesello, per non parlare di un monsignore accusato di omicidio e di un Arsenio Lupin balzato agli onori della cronaca nazionale.Poi, però, l’arcano si spiega perché Mazzola, che a Verona tutti frequenta, tutti consiglia, tutti consola, tutti aiuta, fa il clavigero, cioè esercita il ruolo che la tradizione cristiana assegna a san Pietro. Non detiene le chiavi del paradiso, questo no, ovvio. Più semplicemente si accontenta d’impugnare ogni mattina alle 6.30 e ogni sera alle 19.30 le tre, pesantissime, forgiate da un fabbro chissà in quale epoca, che aprono e chiudono la Cattedrale, degna succursale terrestre dell’empireo, almeno dal punto di vista artistico.
Lì, dove secondo la tradizione il patrono san Zeno nel IV secolo edificò il primo tempio cristiano della città, sui cui resti sorse poi la chiesa consacrata nel 1187 da papa Urbano III, il laico Mazzola, accolito che molti scambiano per un prete chiamandolo «don Rino», presta il suo servizio da 30 anni esatti come volontario, sacrificando vacanze estive, sabati, domeniche e feste comandate alle esigenze del culto. Si occupa persino degli addobbi floreali. Talché ben gli si addicono le parole del salmista: «Mi divora lo zelo per la tua casa».
In più, dal 1982 è anche il titolare di Verona premia, azienda specializzata nella produzione di coppe, medaglie, targhe, incisioni, trofei, sculture, gagliardetti, formelle e di ogni altro gingillo necessario quando ci sia da celebrare un vivo o da commemorare un morto, o semplicemente da sottolineare un’appartenenza. E se produci i berretti con il logo della polizia di Stato, è scontato diventare amico delle forze dell’ordine. «Il primo a darmi fiducia fu Pasquale Zappone, il questore che condusse le indagini sul sequestro del generale James Lee Dozier, rapito dalle Brigate rosse», rievoca.
Fu sempre lui, il devoto Rino, a fornire striscioni, bandiere, magliette serigrafate, gadget e adesivi per lo scudetto del Verona nel 1985, tanto da finire immortalato su Epoca e su Oggi, non prima d’aver versato le dovute royalty all’Hellas per il copyright. E fu ancora lui, esperto di galateo istituzionale, a consigliare all’allora questore Francesco Landolfi: «Il suo ufficio mi sembra troppo spoglio, andrebbe arredato in modo da prestarsi per eventuali interviste televisive». Tempo qualche ora, e una pantera del 113 lo riportò in questura, dove Landolfi gli chiese perentorio: «Come faceva a sapere che sarebbero piombate qui le troupe dei telegiornali?». Poco prima i banditi avevano rapito la piccola Patrizia Tacchella.
Era il 9 gennaio 1990 quando Mazzola indossò per la prima volta la tunica in Duomo. «Dovevo incontrare don Luigi Bosio, che era nato ad Avesa il sabato santo del 1909 e che in odore di santità è rimasto per tutta la vita», racconta. «Infatti, morto nel 1994, oggi è venerabile. Significa che la Chiesa ha riconosciuto l’eroicità delle sue virtù e che presto sarà innalzato agli onori dell’altare».
Chi la mandò da lui?
Se glielo dico, non ci crede.
Tendo a fidarmi.
All’origine del nostro incontro ci fu una maga. È una storia complicata. Un giorno mi telefonò monsignor Ilario Salvetti, che conoscevo bene, e mi affidò una missione da agente 007: «Devi andare da una cartomante di Borgo Venezia, fingerti un cliente deluso in amore e poi riferirmi come si comporta». Siccome era consulente ecclesiastico del Movimento azione familiare ed esorcista, presumo che volesse indagare su questa signora forse perché esercitava un influsso nefasto su alcune coppie.
Probabile.
Andai, facendomi passare per un fidanzato cornificato dalla morosa. L’indovina pretese 20.000 lire e sentenziò: «Devo reincontrarti per magnetizzare il pensiero. Portami la foto della ragazza». La seconda volta mi chiese 50.000 lire: «Devo fare la candela e mettere sette aghi».
Oh mamma!
Non ci dormii tutta la notte. Così l’indomani mi presentai da Salvetti per dirgli che non mi sarei più recato a casa di quella matta. «Ti mando da monsignor Bosio per una benedizione», mi tranquillizzò. Incontrai il futuro venerabile alla messa delle 7. Finito il rito, mi fermai a pregare. Passò monsignor Luigi Cavaliere: «Sei stato all’affollatissima messa di Bosio? Quando la celebro io, non c’è mai nessuno». Se vuole, la assisto, gli risposi. E così mi fece indossare la tunicella con sopra la cotta. Alla fine si complimentò: «Leggi bene e canti anche meglio».
Era la prima volta?
In Duomo sì. Al mio paese da bambino ero stato chierichetto. Cominciai a 6 anni. Il parroco di Caprino, monsignor Umberto Tosi, era anche vicario foraneo. Indossava cappa di ermellino, anello e croce pettorale. Pareva un cardinale.
Avrebbe fatto la gioia di papa Francesco.
Eh, lo so, allora i preti vestivano così. Tutte le mattine alle 6 in punto dovevo aiutare il sacrista, detto El Scienza, a suonare l’Ave Maria con le campane.
El Scienza? Perché?
Perché subito dopo eseguiva i rintocchi delle previsioni del tempo. Un colpo sereno, due colpi nebbia, tre colpi pioggia, quattro colpi neve. Una volta sbagliai e suonai quattro colpi anziché tre. Il sagrestano mi rifilò uno schiaffone, gridando: «Desgrassià! Adeso la gente pensa che el fioca».
Aveva una stazione meteo?
No, no. Si limitava a guardare il cielo: «L’è biso». Quindi pioggia imminente. Tre botti di campana.
Se dico «chiesa», qual è il suo primo ricordo?
Io a 4 anni, tenuto per mano dalla nonna materna Caterina, che mi porta con sé a messa. È vissuta fino ai 97 anni, ha avuto 12 figli, fra cui tre suore. Le prime preghiere me le insegnò tenendomi sulle sue ginocchia. La sera, dopo cena, in località Campagna, ci si radunava per recitare il rosario.
Che studi ha avuto?
Volevo diventare ragioniere. Ma le cose andarono diversamente e finii a insaccare salsicce alle 5 di mattina nella salumeria del vicesindaco dc Stefano Fioretta, proprio di fronte al municipio. Nel 1976 venni a lavorare a Verona, in un negozio di argenteria alle Arche Scaligere. Per risparmiare benzina, tre giorni a settimana dormivo su una brandina dentro la bottega. Nel frattempo cominciai a fare da chierichetto all’abate della basilica di San Zeno, Ampelio Martinelli. Un giorno di aprile il vescovo ausiliare Andrea Veggio venne a celebrare la messa nella cripta per il triduo del patrono. «Torna anche domattina», mi disse alla fine. Poi cominciai ad accompagnare in auto a Roma il direttore di Telepace, don Guido Todeschini, quando doveva fare le telecronache delle dirette di papa Wojtyla.
Mai pensato di diventare prete?
Sì. Dopo la terza media entrai per un periodo di discernimento vocazionale nel piccolo seminario di Roverè, lo stesso in cui nel 1957 fu ammesso Giuseppe Zenti, il futuro vescovo di Verona. Con me c’erano tre coetanei di Caprino. Dopo 15 giorni loro rimasero, io fui rispedito a casa. Mia zia suor Flora, che ha 93 anni e lavora ancora per la Caritas, ci rimase malissimo. Nessuno dei tre è mai diventato prete. Hanno fatto uno il medico, uno il commerciante, uno il sindacalista. Oggi non vanno nemmeno più in chiesa.
Mentre lei non ha trovato il tempo di farsi una famiglia, tutto preso com’è dal servizio liturgico.
Una simpatia femminile l’ho avuta, ma poi lei prese un’altra strada. Monsignor Bosio me l’aveva predetto: «Una ragazza alla quale vuoi bene ti lascerà, non ti sposerai, ma troverai tante anime da curare, anziché una sola». Nel chiostro dei canonici c’era la fila dei fedeli ad attenderlo, quando scendeva di casa per la messa delle 7 in Cattedrale. Dopo averla celebrata, si chiudeva nel primo confessionale della navata di destra e stava lì ad ascoltare i penitenti fino a sera.
Ecco perché lo vogliono santo.
Lo diventerà di sicuro. Manca solo che la Chiesa riconosca un miracolo avvenuto per sua intercessione. Aveva il dono di saper ascoltare tutti. A volte ti fermava con tono imperioso: «Devi fare così, devi fare cosà». In questi consigli non sbagliava mai, come potrebbe testimoniare il vescovo Zenti, suo figlio spirituale, che ha voluto far traslare la salma dal cimitero monumentale alla cripta dei vescovi in Duomo, affinché riposi accanto a Giuseppe Carraro, Giuseppe Amari e Attilio Nicora, suoi predecessori sulla cattedra di san Zeno.
La Chiesa madre della diocesi è una macchina complicata da gestire. Mi risulta che sia persino dotata di una lavanderia.
Vero. Alcune volontarie lavano i paramenti e li stirano. Del resto per le concelebrazioni servono fino a 200 casule nei quattro diversi colori dell’anno liturgico, bianco, rosso, verde e viola, anzi cinque, perché ci sono anche quelle rosa, che vengono utilizzate solo due volte, per la domenica del Gaudete in Avvento e per la domenica del Laetare in Quaresima. Uno dei canonici si rifiuta d’indossare la pianeta di questa tinta, dice che non vuole sembrare la Pantera Rosa.
La bella voce con cui guida i canti da chi l’ha ereditata?
È un dono di natura. Il primo a udirla fu il compianto vescovo ausiliare Maffeo Ducoli, quando a Caprino mi fecero intonare il canto responsoriale Rallegrati Gerusalemme. Da allora non ho più smesso.
Ma in quante messe presta servizio nel fine settimana?
Tre il sabato. Quattro la domenica: prima erano cinque, adesso sono stato esonerato dal partecipare a quella delle 7.30. E anche dall’aprire la chiesa nei giorni festivi: ci pensano suor Maria, suor Vi e suor Tucp, le tre sacriste vietnamite della congregazione Amanti della Croce. Così posso dormire un’ora in più.
Anche il Padreterno si riposò nel settimo giorno.
Però durante la settimana cerco di non mancare mai alle novene e alle messe esequiali, compatibilmente con i miei impegni di lavoro.
Ma alle 6.30 c’è già chi vuole entrare in Duomo?
Sempre. Almeno una trentina di fedeli.
Le chiese chiuse di pomeriggio non le mettono tristezza?
Sì. Ma ci sono motivi di sicurezza che impediscono di tenerle aperte. Comunque in Cattedrale si entra anche quando le porte sono sbarrate, grazie alla sorveglianza assicurata dall’associazione Chiese vive. Basta passare dall’ingresso dietro l’abside, quello delle visite a pagamento per i turisti. I residenti nella diocesi di Verona entrano senza biglietto.
Non crede che le chiese dovrebbero essere frequentabili anche di sera?
Certo. Ho lanciato l’idea che siano tenute aperte almeno nei lunedì d’estate, quando non ci sono gli spettacoli in Arena e al Teatro Romano, magari offrendo concerti gratuiti. Avrei escogitato anche il nome dell’iniziativa: Notti di note. Spero che Chiese vive raccolga il mio suggerimento.
Non ha paura che qualcuno si nasconda in Cattedrale per rubare dopo che lei ha chiuso il portone?
C’è un sofisticato impianto di allarme. Le emergenze sono altre.
Per esempio?
Mi capita di dover inseguire persone che, dopo aver ricevuto la comunione in mano, si allontanano dall’altare senza inghiottire l’ostia. Ultimamente è capitato due volte. Ho raggiunto una turista greca sul sagrato e le ho chiesto conto del suo comportamento. «Souvenir», mi ha risposto. L’ho obbligata a deglutirla in mia presenza. Un fedele mi ha segnalato un signore che aveva avvolto la particola in un fazzoletto. Quando l’ho bloccato, è diventato paonazzo e me l’ha restituita.
Inquietante.
Probabilmente si tratta d’individui che partecipano alle messe nere. Uno di costoro ha tentato di offrire 20 euro a un chierichetto perché gli procurasse un’ostia consacrata.
Ha mai conosciuto sacerdoti che con i loro comportamenti hanno rischiato di farla allontanare dalla Chiesa?
Uno solo, appartenente a un ordine religioso non diocesano. Lo smascherai mentre usava un contagocce per simulare le lacrime di una statua della Madonna. Mi risulta che stia ancora facendo danni in giro per l’Italia. Ma so con certezza che su di lui il Vaticano ha aperto un fascicolo.
Di quanto è calata la partecipazione ai sacramenti?
Rispetto ai miei tempi? Di un buon 60 per cento. Ultimamente si assiste a un ritorno delle coppie, che vengono a chiedere il matrimonio religioso accompagnate da figli di 3 o 4 anni.
Tempo libero ne ha?
Poco. E quel poco lo dedico al volontariato. Sono stato fra i cofondatori della Croce bianca. Adesso assisto una signora di 87 anni con gravi problemi di salute. Il giudice tutelare del tribunale mi ha appena nominato suo amministratore di sostegno. E poi ci sono tanti preti anziani che hanno bisogno di aiuti d’ogni tipo. Il mio vizio è di non dire mai di no a nessuno.
Che cosa la fa ridere?
Le barzellette di monsignor Edoardo Sacchella. E i vescovi.
Addirittura.
Quelli che ho conosciuto avevano un notevole senso dell’umorismo, in particolare padre Flavio Roberto Carraro. A un chierichetto che durante il lavabo gli versava poca acqua, chiese: «Gh’èto paura che no paga la boléta?». Invece al cerimoniere don Adriano Cantamessa, pace all’anima sua, che gli porse il turibolo dicendogli: «Metta poco incenso», replicò: «Gh’èto paura che stòfega la Madona?». Purtroppo il microfono a spillo era aperto e in Cattedrale tutti udirono il rimbrotto. Quella fu l’ultima volta che Cantamessa lo assistette in una celebrazione.
A quale santo è più devoto?
Lo sono a Carlo Acutis, un ragazzo milanese morto per una leucemia fulminante nel 2006, a soli 15 anni. Papa Francesco l’ha proclamato venerabile. Era un talento dell’informatica e pensava che la propagazione della fede sarebbe avvenuta attraverso il Web, tanto che vogliono farne il patrono di Internet. Una notte, alla vigilia di un viaggio di tre giorni ad Assisi, vidi in sogno la faccia di un giovane che non conoscevo. L’indomani entrai nel santuario della Spogliazione, dov’è sepolto Acutis, e rimasi di sasso: la gigantografia del defunto era identica al volto apparsomi di notte. Mi ha colpito una sua frase, quasi un testamento spirituale: «Tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie».
Chi raccoglierà l’eredità del clavigero Rino Mazzola?
(Punta l’indice verso il soffitto). Questo solo Lui lo sa.
(L’Arena)