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 2019  dicembre 05 Giovedì calendario

Chipperfield contro le archistar. Intervista

Senso di comunità, qualità della vita e rispetto dell’ambiente sono i temi che il grande architetto inglese David Chipperfield, 65 anni, svilupperà nel 2020 come direttore ospite della rivista Domus. Dopo la sua presentazione, avvenuta ieri in cima al Pirellone di Milano, città dove ha uno studio come a Londra, Berlino e Shanghai, gli chiediamo dei suoi tanti progetti razionalisti con sfumature neoclassiche.
Perché le questioni sociali e ambientali oggi non sembrano più utopia?
«Nelle città è urgente il bisogno di far fronte all’insoddisfazione. Guardiamo Milano. Gli investimenti immobiliari aumentano, ma perché si costruiscono grattacieli? Non sono sicuro che li chieda la gente, almeno non tutti. Qualità della vita e risparmio energetico sono le vere esigenze. In Italia magari c’è più sensibilità su questo che in Nord Europa, dove la Brexit non è casuale».
Hanno fallito le archistar con i loro gesti unici e spettacolari?
«Sì, penso che la loro era sia finita, ma non l’architettura. Le persone chiedono ancora dei posti belli. Il mio lavoro è stare seduto a un tavolo e aspettare che mi chiamino per un progetto. Solo che nella città di oggi nessuno è più responsabile di nulla. Il traffico, il verde, l’economia e le costruzioni non sono variabili indipendenti».
Serve più politica a coordinare?
«Certo, occorre ripensare a come si prendono le grandi decisioni. In Galizia, dove porto avanti un progetto di comunità, non mi occupo tanto di edifici quanto di dialogare con le persone». 
Lei è londinese, qual è la sua Londra?
«Abito a Regent’s Park e ho lo studio vicino allo Strand: la mia Londra preferita ci sta in mezzo, da Marylebone a Mayfair e Covent Garden. Purtroppo il centro è invaso dai turisti e ha perso la dimensione domestica. Il pregio di Milano è di essere una città internazionale, ma con un lato famigliare. Si sente che è un posto che appartiene alle persone».
Lei è molto europeo per cultura, perché gli inglesi lo sono così poco?
«Non lo so, ma solo il 51 per cento ha votato per la Brexit. E davvero non sono europei? Prima del referendum nessuno protestava contro l’Unione Europea. La Brexit è stata spinta da alcuni conservatori che volevano deregolamentare all’americana».
Le piccole che futuro hanno?
«Intanto hanno già la qualità della vita ambìta nelle grandi. Poi devono ritagliarsi un ruolo per non spopolarsi. La Galizia, dove da 28 anni ho casa, è uno dei luoghi più poveri della Spagna e con la più alta qualità della vita. Il Pil non è tutto e appena usciamo dalle grandi città ce ne accorgiamo».
Ha appena inaugurato il Pompidou di Shanghai, com’è lavorare in Cina?
«Assai diverso e complicato. Il sistema dei permessi e il contesto sono opachi, molto peggio che in Italia».
Per finire la sua Cittadella giudiziaria di Salerno ci sono voluti 15 anni.
«È vero, può essere difficile anche in Italia, ma almeno a Salerno sono simpatici e ospitali».
Per il nuovo Pompidou si parla di diplomazia dei musei, di che si tratta?
«In Cina milioni di persone si spostano nelle città, che necessitano oltre che di case anche di infrastrutture culturali. I cinesi hanno la frustrazione di non averne, ma non sanno veramente che musei vogliono. Allora importano dall’estero. Il Pompidou è interessante perché per la prima volta un’istituzione europea può alimentare la vita culturale cinese».
La struttura è di vetro e cemento e come molte sue architetture è bianca. Il suo colore preferito?
«Il vetro è riciclato per dare il messaggio che si può costruire con materiali solidi ed ecosostenibili anche in Cina, e sul bianco non direi che mi piace particolarmente».
Eppure guardando i suoi lavori sembra il colore dominante.
«Osservazione corretta, ma non c’è premeditazione. In effetti facciamo molta architettura concreta, che tende a essere bianca».
Lei è specializzato in musei, qual è il suo preferito?
«Tra i miei il Neues di Berlino, perché è una struttura complessa tra vecchio e nuovo, e in generale la casa dell’architetto neoclassico John Soane e la National gallery a Londra, il Louisiana in Danimarca e il Museo di Antropologia a Città del Messico».
E cosa vorrebbe ancora costruire?
«Non un’architettura, ma un modo di coinvolgere la comunità. Il futuro non è un singolo edificio, ma un progetto sociale come in Galizia, i musei aperti al pubblico e al dialogo interculturale e la protezione di edifici storici dell’importanza delle Procuratie vecchie, che restauro per Generali in San Marco a Venezia».