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 2019  dicembre 02 Lunedì calendario

Ricordiamoci perché l’Iri fu smantellato e perché si aderì all’euro

Ai nostalgici della Lira e della spesa pubblica in forte deficit si sono ultimamente aggiunti anche – dal governo e dai sindacati – quelli dell’Iri. C’è una coerenza nella nostalgia che alcuni provano per la lira, la spesa, e l’Iri. Le tre erano, infatti, il “pacchetto” che caratterizzava la Prima Repubblica.
Alla nostalgia per il tempo che fu sfugge però il passaggio successivo. Se le cose fossero andate così bene, perché mai fu deciso di cambiare? La decisione di frenare la spesa pubblica (che fino ad allora era finanziata anche con l’emissione di moneta) fu presa agli inizi degli anni Ottanta, la decisione di abbracciare la moneta unica fu presa a metà degli anni Novanta, e, sempre negli anni Novanta, fu smantellata l’Iri.
Qual era la logica di questa decisione? L’Italia aveva una spesa pubblica fuori controllo, così come aveva delle relazioni industriali “oliate” dalle molte svalutazioni. Non avendo il sistema politico italiano la forza per frenare la spesa e normalizzare le relazioni industriali, si pensò che la soluzione fosse quella di creare un vincolo esterno che agisse nella direzione voluta. Fu così deciso di cedere della sovranità quale strumento per uscire dall’angolo in cui si era finiti. La cessione di sovranità verso l’estero era quindi lo strumento per riacquistare sovranità verso l’interno. Tentiamo di articolare le affermazioni fin qui fatte.
In passato, le infrastrutture – telefonia, acciaio, autostrade, voli arei, i finanziamenti a lungo termine – erano offerte dalla Stato attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Era il lascito dirigista del Ventennio, o, se si preferisce, della svolta statalista ai tempi della grande crisi degli anni Trenta. Lo Stato offriva i “beni base”, ossia quelli che servivano per produrre i “beni finali”.
I pisani aprivano gli alberghi e le pizzerie per i turisti, che arrivavano con Alitalia o con Autostrade a fotografare la torre. Altri dirigevano le imprese che usavano l’acciaio dall’Italsider. Altri si finanziavano presso l’Imi. Infine, tutti potevano telefonare grazie alla Sip (in origine Società Idroelettrica Piemontese e qui si apre il capitolo della nazionalizzazione dell’energia elettrica, che ha dato luogo a all’Enel, il gigante energetico parente dell’altro, l’Eni, nato nel Dopoguerra). Fuori dal campo delle infrastrutture, perché l’Iri si era allargata, i ristoratori pisani potevano pure comprare i pomodori dalla Sme e offrire i cioccolatini e i panettoni sempre della Sme (in origine Società Meridionale Elettrica, di nuovo, come il caso della Sip, abbiamo una vicenda legata alla nascita dell’Enel).
Il debito pubblico italiano fino agli anni Ottanta era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche
Per non dire di Mediobanca, controllata dalle Banche di interesse nazionale (Bin), a loro volta controllate dall’Iri da prima della Seconda Guerra, ma autonoma. Il mercato primario – quello dove le imprese si approvvigionano di obbligazioni ed azioni – passava quasi tutto attraverso Mediobanca che, in questo modo, governava il sistema privato. Mediobanca collocava i titoli presso il pubblico attraverso gli sportelli delle Bin.
Questo era il mondo della “sovranità”. Un mondo molto statalizzato. In questo mondo fu costruito negli anni Sessanta e Settanta lo stato sociale – ossia la sanità, la scuola e le pensioni – con le entrate che erano, a differenza degli altri Paesi che hanno costruito nello stesso periodo lo stato sociale, inferiori alle uscite. Da qui trae origine il gran debito pubblico dell’Italia.
Il debito pubblico italiano fino agli anni Ottanta era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi, negli anni Novanta, il debito pubblico è passato nelle mani delle famiglie. Era di nuovo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti elevati, queste lo sottoscrivevano.
Si aveva così un meccanismo di consenso semplice. La politica governava il deficit e il debito prima attraverso le “sue” banche e poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito sul debito italiano. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. In breve, il Principe non faticava per ricevere il consenso degli elettori, perché il debito crescente si sarebbe poi scaricato sui “non nati”, che non votano (si può dire la stessa cosa del sistema pensionistico che allora elargiva dei redditi superiori ai versamenti).
Arriva con gli anni Novanta il momento del “mercato” nella doppia direzione degli Italiani che possono investire all’estero, e dell’estero che può investire in Italia. I giudizi di merito si possono perciò formare: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto – per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco? Il Principe deve ora – e a differenza di prima – convincere una platea piuttosto vasta che il suo debito è sottoscrivibile. Cambia così la natura del rapporto: nel primo caso il Principe non doveva convincere nessuno intorno alla tenuta del debito, nel secondo, invece, deve farlo.
I salari in Italia crescevano più della produttività. Si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro
Chi desidera il ritorno della spesa pubblica in deficit è infastidito dal controllo che l’industria finanziaria esercita indirettamente (attraverso il differenziale di rendimento fra i Btp e i Bund: il famigerato spread) sulle politiche economiche, ed è anche infastidito dall’influenza di Bruxelles sui vincoli di deficit e debito. E quindi accusa i “poteri forti” di essere il nemico dell’Italia.
Fu però decisa dal potere politico italiano e non dai poteri forti la cessione di sovranità. Perché mai? Questo il ragionamento.
L’Italia ha una base industriale, ma essa è penalizzata dagli alti tassi di interesse. Il livello di questi ultimi dipende dall’inflazione corrente e dall’incertezza intorno al suo corso futuro. L’incertezza richiede un premio (per il rischio) sopra il tasso di inflazione corrente. Il denaro alla fine costa molto più che in altri Paesi e penalizza l’industria italiana (ma anche le famiglie se accendono i mutui, e il Tesoro in sede di pagamento degli interessi). Vincolando il cambio, l’inflazione non potrà che scendere, e vincolando il bilancio pubblico al solo finanziamento con obbligazioni (ossia senza emissione di moneta), l’inflazione non potrà che scendere.
Se l’inflazione si comprime, i tassi (reali) d’interesse si comprimono, perché scompare il premio per il rischio, e quindi l’industria italiana non sarà più penalizzata rispetto ai concorrenti esteri.
Il ragionamento fin qui è lineare, manca però un pezzo tutto fuorché secondario. La decisione di apertura dei mercati e di adozione dell’euro aveva un risvolto politico, perché il meccanismo dell’aggiustamento dei conti e del consenso attraverso le svalutazioni era ora reso impossibile. I salari in Italia crescevano più della produttività. In diversi momenti nel corso del tempo – ossia man mano che crescevano differenziali di inflazione – le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. C’era però una terza opzione. La svalutazione della lira era la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano (seppur temporaneamente) appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”.