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 2019  novembre 12 Martedì calendario

Fellini, De Sica e la parte mancata del “frocio”

Da ragazzo Federico Fellini credeva di “somigliare un po’ a Harold Lloyd, mi mettevo gli occhiali di mio padre, per assomigliargli di più, gli toglievo le lenti”. Del resto, prediligeva i comici, che considerava “dei benefattori dell’umanità. Regalare spensieratezza, divertimento, buon umore, far ridere, che mestiere meraviglioso: avrei voluto nascere con un destino così simpatico”. Ne discendeva che “Stan Laurel, Keaton, Oliver Hardy, Chaplin erano i miei idoli. Macché Greta Garbo, Gary Cooper, Clark Gable”.
Parole in libertà, confessioni ardite e riflessioni meditate: Fellini si lascia andare, e sintomaticamente quando questo lungo monologo – incalzato e contrappuntato dal critico Giovanni Grazzini – viene pubblicato per la prima volta è il 1983 e sta uscendo E la nave va. Il maestro non guarda solo Oltreoceano, ci mancherebbe. Roberto non l’ha ancora incontrato, La voce della luna arriverà solo nel 1990, ma ha già le idee chiare: “Benigni è un personaggetto”. No, non come quelli avversati dal Vincenzo De Luca di Maurizio Crozza, bensì “stimolante, lo Stenterello toscano, arguto e irriverente, un Pierrottino scanzonato, lunare e terrestre”. Con un occhio alla luna, Federicone – copyright Olmi, di converso ribattezzato “Ermannino” – soppesava “gli attori comici della nuova generazione” e individuava in Benigni “il più originale, il più dotato”.
La grande bellezza del memoir Sul cinema, rieditato dal Saggiatore (in libreria da giovedì), è che erano tutti, protagonisti e comprimari, grandi, e così la nostra nostalgia di quel mondo antico senza essere piccolo, di vite che erano da film anche quando i film non si realizzavano, di aneddoti rubati al copione e viceversa.
È il caso del rendez-vous tra Federico e Vittorio De Sica. Il primo viene dal “disastro commerciale” dello Sceicco bianco, il secondo farebbe da abbrivio ai Vitelloni: non per volontà del regista, ma del produttore Lorenzo Pegoraro, che “Sordi fa scappar la gente. Leopoldo Trieste non è nessuno! Mi venga incontro almeno in questo: prenda De Sica per quella parte! Lo convinca, vada lei a parlarci, non mi rovini!”. I punti esclamativi si sprecano, i singhiozzi pure, “così, una notte d’inverno, andai a cercare De Sica, che stava girando Stazione Termini”, poi approdato in sala il 2 aprile del 1953.
Tre Oscar per il miglior film straniero, Le notti di Cabiria (1958), 8 ½ (1964) e Amarcord (1975), e uno onorario nel 1993, Fellini ricevette anche ben otto nomination per le sue sceneggiature, e qui si capisce perché: “L’appuntamento era per dopo la mezzanotte, in un vagone di prima classe, situato su un binario morto, lontanissimo dalle banchine; bisognava camminare faticosamente sui sassi bagnati, le rotaie umide di nebbia, con il terrore che ogni lucetta nel buio potesse essere un treno in arrivo”. E ancora, “De Sica, come Totò, riusciva a mantenere, anche nella vita, quella sfumata, impalpabile qualità, che rende certe creature come viste nella profondità magica di uno specchio, qualcosa di fatato, di irraggiungibile. Era simpaticissimo, la simpatia come professione, come filosofia: siate simpatici, e molto vi sarà perdonato”. Federico ha una missione da compiere, al “poeta dell’Italia della guerra, delle macerie, della miseria” già obbligato a “immobilità pensose e toni di voce densi di amara consapevolezza”, recita il soggetto, anzi, il ruolo inteso per lui, quello di un grande, celebre attore drammatico “che ora la vita aveva obbligato a compromessi pesanti”, ovvero una piccola compagnia d’avanspettacolo.
Il sommo De Sica pare gradire, sicché “incoraggiato” Fellini va “avanti nel racconto fino alla scena dove il vecchio libidinoso rivela le sue intenzioni all’ingenuo vitellone commediografo”. Forse assopito, poi sorpreso, quindi perplesso, il gigante del Neorealismo chiede: “‘Tu vuoi dire che aveva altre mire, un altro scopo?’. Poi, dopo una piccola esitazione, quasi a bassa voce: ‘Frocio?’. Dissi di sì con la testa, un po’ imbarazzato”. Quella parte sarebbe poi andata ad Achille Majeroni, ma quella notte, in quella carrozza nessuno ancora lo sa, forse: “Cadde un silenzio abbastanza lungo. De Sica guardava fuori dal finestrino, non si sentiva nessun rumore. ‘Però’ disse infine guardandomi con serietà ‘umano?’. ‘Umanissimo’ mi affrettai a dichiarare”. De Sica si mordicchia le labbra, annuisce, dalla produzione stanno per chiamarlo in scena, ma non ha finito, la “sua bella voce cantata” rimbomba nel vagone: “Perché ci può essere molta umanità nei froci, più di quanto sospettiamo”.