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 2019  novembre 12 Martedì calendario

Perché il Kurdistan è pronto a esplodere

Il ritorno maledetto dell’Isis, ovviamente. E prima, lo stupefacente ritiro americano. L’offensiva cinica della Turchia. E le sconfitte continue, dolorose, dei curdi costretti a scoprirsi militarmente e la popolazione ad arretrare persino, per sopravvivere. Dentro un quadro di rivolte popolari sanguinose, dovute a ragioni politiche e sociali. Complete di rivendicazioni territoriali, disfide religiose, ambizioni imperiali, strategie economiche. Tutti motivi che, mescolati insieme, in una zona ad alta tensione, fanno oggi del Nord della Siria, del Sud-Est della Turchia, del nord Iraq, insomma del Grande Kurdistan, la regione più esplosiva del mondo.
La zona dove sono state colpite domenica le Forze speciali italiane, ad esempio, è un’area dell’Iraq a rischio elevato di conflitti armati, scaturiti da motivi politici, economici e sociali irrisolti. Un’area di grande complessità, mai pacificata dalla fine della guerra in Iraq nel 2003 con la sconfitta di Saddam Hussein e la tripartizione di fatto in nord curdo, centro sunnita e sud sciita.
La provincia in cui si è consumato l’agguato, quella di Kirkuk, vive di tensioni da almeno un secolo. Ma con nodi tuttora presenti, e contraddizioni esplose quando la caduta del Raìs ha portato i curdi a chiedere l’indipendenza. Kirkuk, da loro ambita, è attualmente divisa fra turcomanni (con mire evidenti da parte di Ankara) e sciiti. Una città dove le scarpe affondano nel petrolio, da quanto ce n’è. Zona pretesa dai curdi come propria “capitale”, ma contestata dall’Iraq. E dopo il referendum per l’indipendenza svoltosi nel settembre 2017, e gli scontri armati seguiti, visto che il governo centrale non lo ha riconosciuto, l’area è tornata nell’incertezza.
Kirkuk non è il solo grumo di instabilità. A Est c’è Suleimaniyah, altro centro importante amministrato dai curdi. Ma soprattutto c’è la vicina Mosul, sunnita, roccaforte dell’Isis. E, ancora più a Sud nel Paese, un’ampia area sottoposta al confronto fra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita protetta dall’Iran.
Tensioni politiche locali, capaci però di trasformarsi e farsi globali. In Iraq da oltre un mese avvengono proteste popolari per le riforme. In piazza scendono decine di migliaia di persone, sfidando una repressione che sta causando centinaia di vittime. In una zona così destabilizzata e ferita, jihadisti e qaedisti agiscono con facilità disarmante. Arrivando ora a colpire, per l’appunto, “i crociati e gli apostati”, in questo caso i militari italiani.
Nel Nord della Siria le cellule dormienti del Califfato nero, fino a un mese fa soffocate dall’alleanza adesso saltata fra soldati americani e curdi, si sono all’improvviso svegliate. La morte del loro capo Al Baghdadi non ferma i progetti di riorganizzazione. E qui tutta la fascia che va dalla città di Qamishli a Est, a quelle di Ras Al-Ayn e Kobane a Ovest, viene ora sottoposta al rinnovato bombardamento turco delle città curdo siriane. Se poi si passa all’Iran, nella zona a ovest del Paese città come Baneh sono epicentro di rivendicazioni da parte curda. E in Turchia, il Sud-Est compreso fra Van, Diyarbakir, Mardin e Gaziantep, è territorio di uno scontro quasi endemico che si consuma fra esercito turco e guerriglieri del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato movimento terrorista da Europa e Stati Uniti.
L’instabilità cronica dell’Iraq, le ambizioni imperiali della Turchia, l’agitazione dei curdi nelle loro varie realtà, il confronto sunniti-sciiti, il petrolio diffuso nel Nord Iraq, il riposizionamento dei marines, il grido dei jihadisti alla guerra santa, diventano dunque ragioni che fanno del Kurdistan un’area in piena ebollizione. Terribilmente pericolosa, come si vede, pure per l’Europa e l’Occidente.