Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 09 Sabato calendario

Biografia di Lorenzo Capellini raccontata da lui stesso

L’eterno ragazzo di 110 chili e di 78 anni ha un piccolo tatuaggio sull’avambraccio destro. Cos’è? Chiedo. È la testa di una tigre che feci tatuare nel 1962 sotto il ponte di Waterloo, a Londra, dal più grande tatuatore d’Inghilterra e forse d’Europa, visto che venivano da ogni parte del mondo per farsi incidere qualunque cosa desiderassero. E tu perché scegliesti una tigre?
«Perché le sue striature consentono di vedere ancora la mia pelle: il visibile e l’invisibile. Con un leone sarebbe stato più difficile». Ascolto affascinato le spiegazioni che Lorenzo Capellini mi fornisce sulla sua vita. Non saprei in quale galleria di personaggi collocarlo.
Ma la prima cosa di cui mi convinco è che è stato un uomo enormemente fortunato. E se è vero che la dea capricciosa e cieca si posa dove vuole, infischiandosene dei meriti, alla fine non escludo che uno se la deve pur guadagnare. Capellini è un grande fotografo e a Roma si è aperta, presso la Biblioteca della Camera dei deputati, una sua mostra sulla caduta del Muro.
Come arrivasti a Berlino?
«In aereo, da Parigi. Quel novembre del 1989 seguivo una mia mostra al Beaubourg. La mattina del 9 sentii una lunga intervista alla radio in cui si diceva che di lì a pochissimo tempo i berlinesi avrebbero potuto attraversare senza problemi le due Berlino. Arrivai la sera stessa, un taxi mi portò alla Porta di Brandeburgo. Ero stato a Berlino nel mese di maggio e per passare da una parte all’altra della città mi avevano smontato la macchina pezzo a pezzo.
Com’era possibile che improvvisamente tutto cambiava? E incredibilmente tutto cambiò. Vidi la folla passare come una mandria felice da una parte all’altra. Mi spostai nella zona britannica. I soldati inglesi avevano montato delle tende e offrivano tazze di tè e mappe della città ai tedeschi dell’Est. Restai una settimana a scattare foto».
La fotografia è stata la tua chiave di ingresso nel mondo. Hai mai temuto di perderla?
«No, anche nei momenti in cui fotografavo meno era lì nei miei pensieri e soprattutto nel mio sguardo. Una volta chiesi a Cartier-Bresson se avesse mai avuto la tentazione di divorziare da quel suo amore. Mi guardò stupito e poi disse: se anche volessi, è lei che mi tiene legata a sé».
Dove sei nato?
«A Genova. Durante la guerra mio padre avvocato partì per il fronte. Con mio fratello e la mamma ci trasferimmo a Padova dai nonni e poi sui Colli Euganei, da cui vidi una sera la città in fiamme. Finita la guerra i nonni presero una casa al Lido di Venezia.
Fu qui, agli Alberoni, che insieme a mio fratello incrociammo Walt Disney».
Che ci faceva?
«Era una tarda estate. Passava le giornate a pescare da una casetta sulle palafitte. A volte lo trovavamo che disegnava. Era affascinante vederlo curvo con la matita sul suo album. In autunno tornammo a Genova. Mi ammalai di nefrite e per tre mesi non potei uscire di casa».
Quanti anni avevi?
«Sette e mi annoiavo mortalmente. I miei mi regalarono una Rolleiflex con cui cominciai a fotografare gli oggetti di casa. Mi piaceva e continuai a farlo per tutta l’adolescenza. Quando, nel 1958, mi trasferii a Londra ero un fotografo a tutti gli effetti».
Che città trovasti?
«Londra stava cambiando pelle. Usciva dalla lunga povertà del Dopoguerra e, come per miracolo, cominciò a imporre il suo linguaggio nell’arte, nel cinema, nella moda, nella musica. Erano mondi per me sconosciuti. Fotografavo tutto quello che vedevo. Poi, nel 1959, il Sunday Times, col quale avevo iniziato a collaborare, realizzò un supplemento a colori.
Erano piaciute le mie foto, perciò fui mandato in Spagna per un servizio sulla corrida. Arrivai a Malaga nel mese di marzo. Girando per il paese vidi sotto un grande pergolato, seduto su una poltrona di vimini, Ernest Hemingway».
Che faceva lì?
«Beveva. Mi avvicinai e gli dissi che ammiravo i suoi libri e che ero italiano. Mi fece sedere. Gli chiesi che cosa faceva in Spagna, disse che stava scrivendo un romanzo sui toreri più famosi».
Ricordi il titolo?
« The Dangerous Summer, ( Un’estate pericolosa), che poi sarebbe uscito postumo negli anni Ottanta: un romanzo su Antonio Ordoñez e Luis Miguel Dominguín, i due più grandi toreri dopo il leggendario Manolete. Gli dissi che un giornale inglese mi aveva commissionato un servizio sulle corride. Mi invitò a seguirlo per la temporada ».
Cos’è?
«La stagione delle corride. Inizia in primavera e finisce in ottobre. Lo seguii per sette mesi. Partimmo in macchina prima per Alicante e poi giungemmo a Siviglia. Qui ambientò in larga parte il suo ultimo romanzo».
Hemingway si suicidò un paio di anni dopo, nel 1961. Che uomo era quando lo hai conosciuto?
«Alternava momenti di grande allegria a una profonda cupezza. Mi parlava con nostalgia dell’Africa e dell’Italia. Una volta lo sentii dire che non sarebbe morto di vecchiaia. Beveva tantissimo e nel caldo asfissiante non era l’ideale. Per difendersene, diceva, basta avere i piedi nell’acqua e un bicchiere di whisky in mano. Avevo vent’anni e lui sessanta».
Il tuo servizio fotografico?
«Lavorai e spedii il materiale con annesse foto di Hemingway e della moglie Mary. Poi ebbi un nuovo colpo di fortuna. Sempre a Malaga incrociai Orson Welles: si era ritirato, o quanto meno era sparito dalle cronache mondane. Era insieme alla moglie italiana e alla giovane figlia. Mi avvicinai, dicendo che ero un fotografo italiano che lavorava per i giornali inglesi. Si fecero ritrarre perfino sulla giostra, dove accompagnarono la bambina. Al ritorno chiamai Nigel Dempster del Daily Express e gli dissi che avevo un servizio fotografico esclusivo su Welles e la famiglia. Era sorpreso. Chiesi una cifra folle per allora: 25 mila sterline con cui avrei comprato un piccolo appartamento a Londra».
A Londra chi frequentavi?
«Persone legate al mio lavoro: scrittori, musicisti, stilisti. Conobbi Mary Quant, aveva un negozietto di abbigliamento e mi mostrò le prime due minigonne che aveva realizzato. Le fece indossare a due ragazze che fotografai sulla King’s Road. Una certa dose di fortuna è fondamentale: essere al momento giusto quando tutto accade. Conobbi Tony Richardson e Harold Pinter. Divisi, per un certo periodo, il mio studio di fotografo con Tony Armstrong-Jones».
Faceva parte della corte reale, se non ricordo male.
«Vi entrò dopo aver sposato la principessa Margaret, sorella minore della regina. Tony era consulente del Sunday Times. Lo studio era a Pimlico Road e Margaret veniva a trovarlo spesso, di solito alle due del pomeriggio. La principessa arrivava sola sulla sua Mini: grandi occhiali e bavero alzato per non farsi riconoscere. Si fermava un’ora e poi tornava ai suoi obblighi. Poi Tony e Margaret, con la regina contrarissima, si sono sposati. E da allora lui non l’ho più visto. Sono stati anni di una libertà che non ho mai più ritrovato. Gli eventi passavano rapidamente di bocca in bocca. Come quando seppi di un gruppo di ragazzi che suonava a Liverpool».
I fatidici Beatles.
«Proprio loro, all’inizio erano Paul, John, George e Pete, poi Pete Best se ne andò e arrivò Ringo per sostituirlo alla batteria. Vidi questo gruppo al Cavern Club e scattai molte foto. Non erano ancora famosi e giuro che per quanto fossero bravi non pensai minimamente che stavano entrando nella storia.
Questa era l’Inghilterra dei primi anni Sessanta».
Il tuo rapporto con l’Italia?
«Facevo documentari per la Rai, ne girai uno sulla metropolitana di Londra. Fu un lavoro clandestino perché non volevano darci i permessi. E poi hocollaborato al Mondo di Pannunzio».
Come arrivasti a Pannunzio?
«Tramite Elio Nissim che viveva a Londra e conosceva tutti. Vide i miei lavori fotografici e si offrì di mettermi in contatto con Pannunzio. Andai a trovarlo in redazione a Roma. Gli mostrai il book delle foto e cominciò a sfogliarlo. Poi alzò gli occhi e disse che da quel momento mi dovevo considerare un fotografo del Mondo. Emozionato gli chiesi cosa ci trovava in quegli scatti. Non hanno bisogno di didascalie, mi disse. Fu la sola volta che lo vidi. Tornai a Londra e dopo un lungo e impegnativo periodo di lavoro decisi di prendermi una vacanza in Africa.
Avevo negli occhi i racconti di Hemingway».
Fu un viaggio letterario?
«In parte era quella la suggestione. Decisi di andare in Kenya. Giravo con un piccolo aereo a elica per fotografare più luoghi possibili. Avevo due settimane di vacanze e le stavo riempiendo di storie e di immagini. Il giorno prima del rientro fui preso da una crisi da distacco. Telefonai a mia moglie, che era inglese, e le spiegai che non potevo partire. Le due settimane sono diventate cinque anni».
Cosa hai fatto lì?
«Ho comprato un pezzo di terra, ho costruito una
casa e ho fatto il cacciatore».
Non credo sia come scattare foto.
«No, intanto ho dovuto passare un esame difficilissimo. L’associazione dei cacciatori, in prevalenza bianchi, insieme alle autorità locali potevano darti l’autorizzazione o negartela. L’esame consisteva nell’uccisione dei cinque grandi animali africani: elefante, bufalo, leone, rinoceronte e leopardo. Dovevo cacciarli a piedi. Riuscii a superare le prove. Mi sentivo come Hemingway e vivevo felice nella mia casa vicina al lago Nakuru».
Era così importante uccidere?
«All’inizio pensavo di sì. Quei grandi e pericolosi animali, visti nel loro ambiente, mi davano la stessa emozione dei capolavori che a volte visitavo nei musei. Poi un giorno accadde qualcosa che mi traumatizzò. Sparai da una distanza ragguardevole a una zebra. La colpii e lei restò immobile con il capo alzato. Mi avvicinai e non ho mai più scordato gli occhi innocenti con cui mi guardava. A Nairobi vendetti i miei fucili e tornai a occuparmi di fotografia. Nel 1969 rientrai in Italia».
Perché?
«Mi ero innamorato di una donna sposata e con figli. Viveva a Milano. Tornai lì. Ripresi il lavoro di fotografo. La città era impaurita dalle bombe e dal terrorismo. Decisi di trascorrere molto tempo in Veneto dove divenni amico di Parise e attraverso lui di Moravia. Con il primo facemmo un libro assieme sui paesaggi veneti, con il secondo tornai in Africa.
Parlavo un po’ di swahili e lui voleva conoscere i luoghi in cui ero stato».
Com’era Moravia viaggiatore?
«Umile, curioso, persino instancabile nonostante l’età e un problema serio a una gamba. Scrisse un racconto su quel nostro viaggio. Lo ringraziai. Come pure ringraziai Dino Buzzati che mi inviò una lettera dopo che gli avevo fatto un ritratto fotografico».
Cosa diceva?
«Era felice di quella foto. Me lo scrisse con una calligrafia da quinta elementare: “Mi ha reso tollerabile la mia faccia, facendomi riconciliare con uno dei volti che ho più detestato nella mia vita”».
Ti sei mai detestato?
«No, per la semplice ragione che non ho mai detestato o invidiato nessuno. Grato a chi mi ha accolto con amicizia e generosità. A Parise, a Moravia, a Marina Ripa di Meana che è stata una grande donna, al suo compagno Carlo cui devo l’avermi introdotto alla Biennale di Venezia, quando fu presidente dal 1974 al 1979. È gente che non vedrò più. Scomparsa. Tranne Raffaele La Capria, che continuo a incontrare. Ogni volta che lo vado a trovare gli dico: Dudù, hai 97 anni, ti rendi conto! E lui con la disinvoltura delle persone distratte mi guarda dolcemente e sorride».