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 2019  novembre 09 Sabato calendario

Intervista a Woody Allen: «La mia Manhattan»

Innamorarsi a New York in un giorno di pioggia, oggi. Darsi il bacio della vita su un set al Greenwich Village, suonare Gershwin al piano in un appartamento dell’Upper East Side, flirtare al bar dell’hotel Soho o tra le tombe egizie del Metropolitan Museum of Art. Passeggiare a Central Park sotto mille sfumature di pioggia disegnate da Storaro. Woody Allen ancora a Manhattan, quarant’anni dopo il film che lo fece conoscere al mondo: Un giorno di pioggia a New York (il 28 novembre esce in Italia per Lucky Red) è il nuovo lavoro, rinnegato dai produttori di Amazon che lo avevano bloccato dopo le nuove accuse di abusi al regista da parte della figlia adottiva. Argomento sul quale Allen non può parlare poiché c’è una causa legale in corso. Il film è una fuga all’indietro nel tempo, uno di quei trucchi da prestigiatore che Woody Allen amava da bambino e a cui ora affida il compito di (ri)portare il pubblico nel suo cinema di sempre, in una città fatta di sogni, ironia, romanticismo. Timothée Chalamet nel film è l’alter ego dell’83enne Allen, si chiama Gatsby, ama il gioco d’azzardo e vive nel passato, Elle Fanning è la solare fidanzata di provincia che lo trascina a New York.
Questo film è il nuovo capitolo di una lunga storia d’amore tra lei e New York.
«Ci vivo, la conosco, la capisco. Il mio cuore è sempre lì. Da molto tempo volevo ritrarla sotto la pioggia, come in questo film. Abbiamo scovato i posti giusti con Vittorio Storaro. Poi però non ha piovuto mai. Sarebbe stato piacevole avere una settimana di temporale, invece abbiamo lottato tutto il tempo con un sole battente».
Lei vive nell’Upper East Side in uno dei condomini ricchi del film.
«Sì. L’incontro con i miei condomini è una fucina di idee costante, conversazioni origliate in ascensore o al bar. Il film Irrational Man è nato ascoltando in un ristorante lo sfogo di una signora: il giudice aveva parteggiato per il marito nel divorzio, mandandola in miseria. Mi dispiace che sia sparita la classe media: Manhattan oggi è divisa tra ricconi e chi lotta per una vita dignitosa».
Si è innamorato di Manhattan da ragazzino.
«Mio padre mi ci portava a sei anni, durante la guerra. Prendevamo la metropolitana da Brooklyn, salivamo in superficie ed eravamo a Times Square... Era straordinario, c’era una lunga fila di sale cinematografiche, una accanto all’altra. Broadway con i suoi cartelloni, le luci, la folla, i soldati e i marinai, le donne belle, i tizi che facevano trucchi di magia per strada.
Mio padre mi portava anche al luna park della 42esima, al Circle Magic Shop… Ricordo una passeggiata quando mia madre era in ospedale per la nascita di mia sorella. Papà mi comprò un kit da piccolo agente Fbi».
Poi ha iniziato a tornarci da solo.
«Ogni volta che potevo. La corsa Brooklyn-Manhattan durava 40 minuti e costava un nichelino. Non avevo soldi da spendere, passavo il tempo a guardare lo spettacolo sui marciapiedi, sbirciavo nei ristoranti, i club, passeggiavo a Central Park».
Il suo quartiere d’origine era Brooklyn.
«Più che altro ho vissuto nei cinema del quartiere. Ci andavo per incontrare le ragazze e per i film.
Arrivavo dalla Avenue J, compravo le caramelle al chiosco. Venti centesimi di biglietto e Fred Astaire danzava in smoking per me sullo schermo».
Quarant’anni da "Manhattan", il film che ha cambiato la sua vita.
«Fui molto sorpreso dell’entusiasmo del pubblico. Quando lo ultimai non ero contento del risultato e chiamai la United Artists: "Vi posso chiedere di non farlo uscire? Ve ne giro un altro gratis il prossimo anno". Mi risposero che ero pazzo: "Non ce lo possiamo permettere, a noi il film piace e andrà in sala". Fu un successo mondiale, ma non andai alla prima a New York: presi un aereo per Parigi».
Ha trasformato Manhattan in un sogno cinematografico.
«Qualcuno obiettava che i personaggi non erano veri newyorchesi, ma la mia Manhattan non è mai stata naturalistica, come quella di Scorsese o Spike Lee. Ho sempre voluto mostrarla come la vedo io, filtrata da Hollywood. Con i tappi di champagne che saltano, i baci sotto la pioggia. Mi sono sempre opposto alla realtà e ai suoi problemi. Il cinema è una magnifica fuga, per chi lo fa e per chi lo guarda».
Diverso invece il suo rapporto con "Radio Days".
«Sì, dentro c’era un pezzo della mia infanzia, fatto di canzoni e artisti, da Artie Shaw a Bing Crosby. Lì c’è Brooklyn, la mia casa, le serate con i parenti intorno alla radio».
Qual è la sua epoca preferita?
«New York è stata al suo meglio prima che nascessi, negli anni ’20. I ’30 e i ‘’40 sono stati grandiosi, fino ai ’50. Poi sono arrivati la droga, il crimine. Ma le cose sono tornate a migliorare, la città sa risorgere».
Broadway è molto cambiata.
«Il teatro serio che vedevo io Tennessee Williams, Eugene O’Neill, Edward Albee - è andato altrove. Col tempo sono arrivati i grandi musical, oggi è il trionfo dello show per turisti. I biglietti costano centinaia di dollari, da ragazzino per la poltrona migliore ne pagavo otto. Hanno anticipato l’orario degli spettacoli, è finita la vita notturna. C’erano i club dove andavi dopo lo spettacolo per cenare, per bere, ascoltare canzoni o ottimo jazz. Oggi è tutto un traffico di biciclette e lo shopping si fa online».
È ancora il suo posto dell’anima?
«New York è ancora la città più amata, ma Parigi è poco dietro».