il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2019
Mittal, i conti pessimi e la crisi dell’acciaio
L’abrogazione dello scudo penale sull’Ilva? Un’ottima scappatoia che consente ad ArcelorMittal di chiedere il recesso dal contratto con il quale ha affittato l’ex Italsider con l’obbligo di acquistarla. Una scappatoia prevista dall’addendum contrattuale siglato 14 mesi dal primo produttore mondiale: la revoca dell’immunità penale e amministrativa è indicata quale causa legittima per recedere. Ma le vere ragioni dell’uscita sono altre: la crisi dell’acciaio europeo e i conti del gruppo. Lo scudo penale per l’ex Ilva viene introdotto dal decreto Renzi del 5 gennaio 2015 e reiterato nel 2017, ma la Consulta il 23 marzo 2018 lo dichiara incostituzionale. A giugno 2015 la magistratura chiede il sequestro dell’altoforno 2 di Taranto per la morte dell’operaio Alessandro Morricella, ma a settembre 2015 la Procura pugliese, accogliendo un’istanza della società, annulla il sequestro a condizione della messa in sicurezza. Eppure proprio la norma del decreto Renzi, nonostante fosse già dichiarata incostituzionale, viene inserita nel contratto firmato da ArcelorMittal il 18 settembre 2018.
La gara per rimettere in carreggiata l’Ilva, dopo il tracollo dei conti e il commissariamento straordinario, inizia nel 2016 con l’interesse di una ventina di gruppi. Nel 2017 si riduce allo scontro tra la cordata AcciaItalia (Jindal, Cassa Depositi e Prestiti, Arvedi e Del Vecchio) e il consorzio Am Investco Italy, composto al 94,4% da ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia al quale poi subentra Intesa Sanpaolo.
All’epoca il mercato consente di nutrire ottimismo, con la produzione italiana tornata oltre i 24 milioni di tonnellate, anche grazie all’industria di Taranto che però continua a perdere denaro. Il 5 giugno 2018 ArcelorMittal vince la gara e il primo novembre Ilva entra a far parte del gruppo lussemburghese. Ma da allora, se nel mondo le cose non vanno male, in Europa l’acciaio è tornato in crisi. WorldSteel, l’associazione di settore, prevede che a fine 2019 la domanda globale di acciaio crescerà su base annua del 3,9% a 1.775 milioni di tonnellate e l’anno prossimo di un altro 1,7% a 1.806. A trainarla sarà la Cina (+7,8% a 900,1 milioni di tonnellate) che da sola produce metà dell’acciaio totale, mentre il resto del mondo segnerà appena +0,2% a 874,9.
L’Europa è il secondo mercato mondiale, ma quest’anno la domanda è calata dell’1,2% a 166,8 milioni di tonnellate e solo l’anno prossimo dovrebbe tornare a 168,6. Eppure la siderurgia del Vecchio Continente sta tagliando la produzione. Tra le cause ci sono i dazi di Trump contro Cina, India e Turchia che hanno spinto i produttori di quei Paesi a inondare l’Europa del loro acciaio a basso costo. Il meccanismo di salvaguardia introdotto dall’Ue non riesce a fermare lo tsunami: i prezzi sono calati del 10% e molti impianti sono fuori mercato. Pesano anche la frenata della domanda del settore auto, in calo del 10%, e il rincaro delle materie prime.
A maggio ArcelorMittal ha così deciso di rinviare l’aumento della produzione dell’Ilva a 6 milioni di tonnellate, previsto per il 2020, e ha iniziato a tagliare di quasi 4,2 milioni di tonnellate, il 20% del totale, la produzione europea (che vale metà del suo fatturato). Dopo tre aumenti di capitale per 9,5 miliardi di dollari, nel piano al 2020 la società prevedeva di ridurre i debiti da 10 a 7 miliardi, ma il crollo verticale dei margini (nei conti di giugno erano 207 milioni da 1,43 miliardi dell’anno prima) non lo consentirà. L’azienda ha solo affittato l’ex Ilva per 180 milioni l’anno ma perde già, secondo stime di Reuters, circa 2 milioni al giorno. L’uscita dall’accordo consentirebbe ad ArcelorMittal un risparmio di circa 1 miliardo di euro l’anno e, grazie alla scappatoia legale, il colosso con sede a Lussemburgo ora può chiedere al governo il taglio della produzione e di 5mila dipendenti.