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 2019  novembre 09 Sabato calendario

Intervista a Matteo Berrettini

Un esemplare di tennista così, non l’avevamo mai avuto. La fiondata del servizio che piove da un’altitudine di 196 cm. Il dritto che fa i buchi nel campo. Una maturità ben oltre l’età anagrafica (23 anni). Ma soprattutto la sensazione che Matteo Berrettini, romano del Nuovo Salario innamorato della trimurti Verdone-Panatta-pasta alla gricia però non dell’As Roma (colpa del nonno paterno di Firenze, tifoso viola), non perda mai di vista, proprio mai, la consapevolezza di essere un bravo ragazzo prima che un campione di tennis. È l’umanità di questo gladiatore moderno e gentile, sbarcato a Londra tra i fuoriclasse delle Atp Finals con in valigia due titoli stagionali (Budapest sulla terra, Stoccarda sull’erba), la semifinale dell’Us Open e il n. 8 della classifica mondiale (quarto azzurro a sfondare il muro dei top-10, il primo al Master dopo 41 anni), il valore aggiunto di Berrettini from Italy. 
Matteo, un debutto col botto: domani contro Djokovic. 
«Dopo Federer a Wimbledon e Nadal a New York, ecco Nole. Sono pronto, emozionato ma pronto. Provare gratitudine per tutte le meraviglie che mi sono successe quest’anno non significa sedersi. Sarò competitivo». 
Ha mandato una cassa di vino a Shapovalov, che battendo Monfils a Parigi le ha regalato il biglietto per Londra? 
«Pensavo a una damigiana di sugo della nonna, piuttosto... Lo ringrazierò a Madrid, dove saremo avversari in Coppa Davis. E non ho nessuna intenzione di ricambiargli il favore». 
Da n. 54 a n. 8 in dieci mesi: come si sta sull’ottovolante? 
«Mi piace prendere appunti sull’iPad, l’ho scritto nel mio diario proprio l’altro giorno: questo ottovolante mi fa girare la testa ma mi piace». 
C’è il tempo di riuscire a essere un po’ felici o la fretta si mangia tutto? 
«Sulla felicità sto lavorando con Stefano, il mio mental coach. Lo spazio per gioire va per forza ritagliato: la sera in cui a Parigi ho perso con Tsonga mi sono imposto di aprire una bottiglia di champagne. Al di là del risultato, era il giusto riconoscimento a me stesso». 
L’emozione più intensa fin qui? 
«Il match con Nadal all’Us Open. Tutto il percorso a New York è stato pazzesco. Se penso al quarto di finale con Monfils ho ancora i brividi. I match point, il doppio fallo, 7-6 al quinto... Incredibile». 
Ha scoperto qualcosa di sé che non conosceva? 
«Sì. Mi sono scoperto di più di quello che credevo di essere. Mi sapevo già determinato, cazzuto, un atleta vero. Ma le difficoltà dell’Open Usa mi hanno fatto capire che ho tante cose dentro». 
Parliamo della sua umanità, vuole? 
«Volentieri, mi fa piacere. Sono contento che stia uscendo, perché io sono un tipo che tende a tenersi tutto dentro. Far venire fuori chi sono è la mia forza. Vincenzo Santopadre, mio coach da dieci anni, mi ha cresciuto così: prima viene l’uomo, poi il tennista. Se sono così è perché la mia famiglia è così. Il mio mental coach ha scoperto la mia anima prima di me, ma pian piano ci sto arrivando anch’io. Oltre ai dritti e ai rovesci, metti in campo chi sei. E la vita vera, comunque, è fuori dal tennis». 
La sua ragazza, la tennista australiana Ajla Tomljanovic, come è entrata nella sua vita vera? 
«Con dolcezza. Innanzitutto mi è piaciuta fisicamente: credevo di essere attirato dalle bionde, invece mi ritrovo con una mora. Ajla ha un animo buono, direi addirittura puro, che ho dovuto scoprire per gradi. Per sua educazione e cultura, aveva messo su una scorza: mi ha intrigato partire alla ricerca, andare oltre. E quello che ho trovato mi ha colpito». 
Quanto è importante che una girlfriend sia tennista? 
«Tanto. Ci si capisce al volo. Martedì atterrerà qui a Londra, è venuta a Vienna: comprende i miei tempi, non mi assilla, sa che quando non sono con lei sono impegnato a fare ciò che serve a un tennista». 
La popolarità è piacevole? 
«Finora sì. Ho conosciuto Alessandro Borghi e Claudio Marchisio, il mio idolo assoluto Carlo Verdone mi ha mandato un video di complimenti quando mi sono qualificato per il Master. Le persone più importanti sono quelle che mi vogliono bene da sempre, ovvio». 
L’altro suo mito, LeBron James, si è fatto vivo...? 
«Non ancora! A Shanghai avevo i biglietti per Lakers-Nets, prima fila. Avrei fatto invasione per abbracciarlo. Poi ho vinto con Bautista e il team mi ha imposto di riposare in albergo. Ho dato via i biglietti a malincuore». 
Cosa si è regalato con i 960 mila dollari di premio dell’Open Usa? 
«Due anelli, la mia passione. Uno lo porto al collo. Dentro ho fatto incidere la frase: sei tanto dentro». 
La barba è per scaramanzia? 
«Per pigrizia. A mamma non piace, ad Ajla sì. Tengo una via di mezzo, per non scontentare nessuno». 
In tanta armonia, stona un particolare che le ha procurato qualche critica, Matteo: il trasferimento a Montecarlo. 
«Francamente faccio fatica a vederlo come un difetto. Roma è diventata difficile da gestire: non posso più andare al ristorante. Se uno vuole andare all’estero, che male c’è?». 
Montecarlo è un estero speciale. 
«Dove vivono tutti i tennisti, c’è sempre il sole, è più facile allenarsi. Chi mi attacca non mi conosce, non sa chi sono. Alle critiche sono abituato: con quel dritto e quel rovescio non vai da nessuna parte ragazzino, mi dicevano». 
Sbagliavano. Come ha visto cambiare, strada facendo, l’opinione che gli avversari hanno di lei? 
«Quando sono arrivato ad Halle dopo aver vinto a Stoccarda, in spogliatoio Federer mi è venuto incontro. Ben fatto, mi ha detto. Sentirselo dire dalla leggenda del tennis, fa un certo effetto...». 
Leggenda che a Londra sfiderà nel girone con Djokovic e Thiem (già battuto). 
«Ho imparato la lezione di Wimbledon. E non sono più il ragazzino italiano di belle speranze: ora sono un tennista».