Corriere della Sera, 9 novembre 2019
Intervista a Remo Ruffini, presidente di Moncler
Solo un sano e consapevole dialogo salverà la moda dal consumismo e dalla noia. Remo Ruffini la pensa così da tempi non sospetti, più o meno da una ventina di anni. La sua ossessione. Ora, certo, con un mondo sempre in connessione, è facile includere, intercettare, assecondare. Ma quando l’avventura Moncler è cominciata non c’era nulla. Due anni fa l’idea di Genius, una Babele di creatività. Un sistema unico con tanti stilisti al lavoro e collezioni in uscita ogni mese. E l’esigenza per questo di una comunicazione, alias dialogo, in moto perpetuo. «Essere sul territorio – dice Ruffini – per dare informazioni e riceverne». Allo scopo, nei giorni scorsi, l’inaugurazione del primo pop up in Italia, in Galleria Vittorio Emanuele, a Milano, con la performance di Vanessa Beecroft e i laboratori creativi e le collezioni, la raccolta dei segnali è cominciata.
Un dialogo: da una parte la moda, ma dall’altra? Lei cosa ha imparato, per esempio?
«Innanzitutto abbiamo preso atto di una grande cambiamento: il consumatore maschile è molto più sensibile alla moda di quello femminile. Nessuno lo avrebbe detto soltanto pochi anni fa. Persino l’abitudinario giapponese sa tutto sulle edizioni limitate e per il californiano i materiali tecnici non hanno segreti. È un momento storico per l’uomo nella moda: gli è stata data carta bianca sulla libertà di esprimersi. Prima era, decisamente, legato agli stereotipi, aveva la sua divisa facile e rassicurante. C’erano la giacca e la cravatta. Il blu o il grigio. Ma dopo che la casual-ation, brutto a dirsi ma efficace nel concetto, è entrata nel costume maschile, nulla è stato più come prima. E da un mercato che prima era solo del 20/25 per cento, siamo passati a 50 e 50 fra uomo e donna. Una rivoluzione».
Curiosità o sensibilità?
«Credo entrambi. La curiosità è dovuta a questo cambiamento strutturale e culturale. E questo sta muovendo l’uomo a rinnovare il guardaroba con consapevolezza perché è decisamente informato: se lancio una collezione stai pur certa che il 70% dei clienti maschili risponde subito. La cliente invece arriva dopo 3, ma anche 4 settimane».
Due anni dall’uscita dalle sfilate e da certe stagionalità. Pentito?
«No e non avevamo tante chance. Non siamo mai stati un brand tradizionale. E il mio mondo ha bisogno di energia. Tutti gli anni collezioni e sfilate e campagne, allo stesso ritmo: non mi dava più emozioni».
Si annoiava?
«Anche. Ma più che altro era questa assenza di emozione e ho pensato che se non la sentivo più io, anche per il mio consumatore era lo stesso. Così mi sono detto che dovevo trovare prima una nuova energia all’interno dell’azienda per poi trasmetterla ai nostri clienti. Abbiamo fatto tanto in questo senso in due anni ma siamo soli, non siamo più legati a un sistema».
Le settimane della moda come comfort zone-prigione?
«Esattamente. Noi abbiamo scelto un’altra strada, i nostri pop up e quelli più piccoli. Che raggiungono e comunicato sul territorio. Ogni mese. E se anche uno non vuole acquistare, entra e fa un’esperienza e si informa».
Modello e persone nuove.
«Siamo un team. Un’organizzazione molto diversa da quella tradizionale con il CEO e i vice. Siamo in cinque, ognuno con la propria missione, ci troviamo una volta la settimana, nel comitato strategico, decidiamo, poi ognuno fa la propria strada. Una struttura eccezionale».
Di sé cosa direbbe?
«Che sono esigente. Cerco l’unicità. E la qualità, che io chiamo lusso».
Cosa pensa di aver avuto più degli altri?
«La fortuna». Sorride, tanto sa che nessuno ci crede.