La Stampa, 9 novembre 2019
Intervista a Lina Sastri
Un concentrato di solide contraddizioni, tenute insieme da un talento indomito, dentro il corpo esile di un’eterna ragazzina. Nel salotto della sua casa romana, sospeso tra il frastuono multietnico della Stazione Termini e l’imponenza maestosa di Piazza San Giovanni, Lina Sastri, classe 1950, napoletana «atipica», mai «napoletanese», come lei stessa rivendica, comunica la forza d’animo di un combattente nato, nascosta sotto la fragilità di un uccellino caduto dal nido. Descrive la sua splendida solitudine e dice che, senza l’amore, non si può vivere. Rifiuta ogni ipotesi di rifacimenti chirurgici ma ammette di non gradire i cambiamenti del corpo. Intervistarla è un gioco al rimpiattino, il tentativo di scoprire dove sta la vera Lina, anzi Pasqualina, nata in via degli Zingari, zona popolare della città da cui è fuggita a 17 anni continuando a portarla nel cuore per sempre.
Da giovanissima ha lavorato con Eduardo e con altri maestri. Come ha capito che questo sarebbe stato il suo mestiere?
«Quando Eduardo mi ha scelto ero talmente giovane che non avevo nemmeno coscienza di quello che stavo facendo. L’ho scoperto più tardi, nel tempo ho capito quanto fosse stato importante il Masaniello di Elvio Porta e Armando Pugliese, e poi l’incontro con Patroni Griffi, un maestro che non ti imprigionava mai, il battesimo cinematografico con Nanni Loy in Mi manda Picone, cui poi sono seguiti i film con Moretti, Mingozzi, l’ultimo con Ozpetek che, in Napoli velata, mi ha fatto recitare con una parrucca bionda in testa».
Attrice di teatro, cinema, tv. Però non ha mai dato l’impressione di sentirsi arrivata. Crede di aver pagato la sua complessità?
«Non ho mai avvertito il sapore della svolta, non so mai a che punto sono della mia vita. Quando ho ricevuto il David di Donatello mi sono sentita come Cenerentola. Per me la domanda essenziale è questa: "come mai un’attrice che riempie i teatri, che ha avuto tanti premi, che fa fiction, regia, traduce testi e che, ogni volta, crea tanta attenzione intorno a sé, debba fare così fatica per continuare a lavorare, come se dovesse sempre ricominciare daccapo?».
Lei che risposta si è data?
«È un mistero, forse c’entra il fatto che il nostro è un Paese piccolo, dove tutto è settario, dove quella degli artisti è diventata una piccola tribù e dove è comprensibile che i registi non vadano mai oltre la prevedibilità. Quando fai per un po’ una certa cosa, io per esempio, negli ultimi tempi, sto facendo il teatro-canzone, i produttori, a corto di stimoli, tendono a etichettarti in un modo e quindi a non prenderti in considerazione per cose diverse».
Per gli artisti che ci sono nati Napoli può essere croce e delizia. Un marchio, una ricchezza, una maledizione. Per lei che cos’è?
«Anche se devo a Napoli tutto quello che ho, la professione di napoletano non mi piace e di certo non sono una napoletana doc, con la famiglia numerosa e il ragù domenicale obbligato. Per me Napoli è il mare, il senso della velocità e dell’intelligenza repentina, la filosofia greca, la convivenza di ombre e di luci».
Donna, artista, indipendente. Ha mai dovuto fronteggiare situazioni di molestie?
«No, non mi è mai successo. Mi è capitato di essere perseguitata, quello sì, e anche che qualcuno si invaghisse di me, ma non che mi chiedesse favori promettendomene altri in cambio. Secondo me lo sguardo è importante, è da lì che si capisce se, con una donna, si può osare oppure no. Detto questo, è chiaro che le donne vivano una condizione difficile. Tante volte ho notato che, facendo le stesse cose, da uomo sarei stata più rispettata che da donna».
Nella scala delle sue priorità, che cosa viene prima di tutto?
«L’amore, sempre e comunque. Anche se penso che sacrificare la propria libertà per amore sia un grande sbaglio. Nessun amore ti perdona le rinuncia che fai per lui. Il principio e la fine di tutto è sempre l’amore, non credo che l’essere umano sia fatto per la solitudine».
Non ha figli. Per scelta o per caso?
«Li avrei voluti, e invece mi è capitato di perderli e poi è stato difficile averne. Mi dispiace, e mi mancano molto».
Lei crede in Dio?
«Sì, e con il tempo sempre di più. Mi volevo fare suora, fu mia madre a opporsi. Ho tradotto quell’esigenza di assoluto nell’assoluto dell’arte. Dio c’è, e credere è un gran dono, non puoi decidere di averlo».
Il suo desiderio irrealizzato?
«Vorrei fare cinema, e mi piacerebbe riuscirci con un regista che come riferimento non abbia solo il suo mondo».
Ha progetti in questo campo?
«Ho sceneggiato il mio libro La casa di Ninetta, dedicato a mia madre e ambientato a Napoli, tra la fine degli Anni 60 e oggi. Sarei felice di dirigerlo, ho ben in mente quello che vorrei mostrare. Per me mia madre è la musica, ce l’aveva nella voce, e continua ad accompagnarmi in ogni spettacolo».