Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 09 Sabato calendario

Intervista a Tremonti sul caso Ilva

Giulio Tremonti usa una battuta ad effetto. «Per usare una metafora indiana i governi di questi anni sembrano come la Dea Visnù: prima usano la mano pubblica che perde, poi fanno apparire una seconda mano, sempre pubblica». L’ex ministro del Tesoro ironizza su quel che accadde due anni fa, quando lo Stato partecipò attraverso Cassa depositi e prestiti all’asta da cui uscì perdente contro Arcelor Mittal. Ma è quel che prevedono le regole europee.
Non è così?
«Non si è mai vista un’operazione in cui la francese Caisse de Depot o la tedesca Kfw escano perdenti. La mano pubblica ha perso, quella indiana ha vinto. E questo è un aspetto estremamente anomalo ed opaco». 
Fu una gara con regole precise, non si vede perché. Se lei fosse ancora ministro ora cosa farebbe?
«E’ un’ipotesi che non considero. I numeri non li ho, ma è perfettamente ragionevole l’ipotesi che la soluzione di mercato non sia sufficiente. Penso sia uno di quei casi in cui è difficile rispondere al quesito liberale classico sul confine fra Stato e mercato». 
Non crede che il ruolo della magistratura sia stato un po’ invasivo in questi anni? 
«Quando il problema ambientale è diventato così critico da generare il blocco degli impianti forse sarebbero state necessarie le risorse pubbliche. Non so se l’errore fu fatto con la privatizzazione, di certo è accaduto con la vendita agli indiani».
Insiste con la vicenda dell’asta, ma il rispetto delle normative ambientali lo si può imporre anche a un compratore privato. O no? 
«Se lo Stato partecipa a una vendita è perché ritiene ci sia un interesse pubblico da difendere. Se non l’ha difeso allora, vuol dire che si sono accumulati una catena devastante di errori politici. Quel che accade oggi è contraddittorio».
Non considera discutibile anche l’atteggiamento degli indiani? La disdetta del contratto è arrivata per il mancato impegno del governo sullo scudo penale, eppure avviene proprio mentre il mercato dell’acciaio entra in crisi. 
«Altri hanno il dono divino del diritto. Essendo uno che di solito studia le carte, non ho idea di cosa ci sia scritto nel contratto. Sono avvocato, ma non l’avvocato del popolo». 
Lei prima citava la privatizzazione di quello che una volta era un’azienda pubblica. Tornando indietro avrebbe trovato preferibile la via francese, che è ancora presente con lo Stato in moltissimi settori? 
«Qualche tempo fa il presidente Prodi ha raccontato che le privatizzazioni furono un’ imposizione europea. Ma non è detto che le privatizzazioni italiane siano state tutte rispettose dell’interesse nazionale. Considero positive quelle che hanno aumentato il capitale delle imprese, tendenzialmente quelle rimaste sotto il controllo del Tesoro: Eni, Enel, Finmeccanica. Non lo stesso si può dire per le privatizzazioni fatte dall’Iri, prevalentemente per alienazione. Tra l’altro, molte di queste sono state operate a debito. (Tremonti pensa a Telecom, ndr)». 
Insisto: cosa avrebbe fatto con l’Ilva? La vendita alla famiglia Riva fu un errore?
«L’Ilva fu un’operazione per cessione. Ed è possibile che il prezzo fosse comunque generoso per il compratore, visto che generò consistenti plusvalenze sull’estero. Mi pare che i fatti di oggi dicano che fosse più necessario lo Stato che possibile il mercato. Se guardiamo la cartina geografica dell’Europa, gli spezzatini sono stati fatti soprattutto in Italia. Non è accaduto in Francia, non è accaduto in Germania».