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 2019  novembre 09 Sabato calendario

I punti della trattativa governo-Arcelor

Su Ilva, su come sia possibile rivisitare le condizioni del contratto per ricucire lo strappo e uscire dalla crisi, governo e ArcelorMittal trattano. Un negoziato teso e complesso, che parte da posizioni distanti e il cui punto di caduta è difficile immaginare, ma l’interlocuzione esiste e le aperture cominciano a emergere.
Tra i temi sul tavolo, costo del lavoro e canone di locazione degli stabilimenti. Rispetto al canone, che il contratto fissa in 180 milioni di euro l’anno, Mittal chiede un forte sconto, che il governo potrebbe riconoscere sottoforma di ingresso azionario nel capitale di ArcelorMittal Italia, che oggi è 95% Am e 5% Intesa Sanpaolo. L’ipotesi è quella di incassare azioni, anziché canone, alleggerendo nel contempo l’esposizione della multinazionale al rischio Ilva. La quota, ancora da definire, dovrebbe essere rilevata da uno dei bracci operativi dello Stato, Cdp o Invitalia o un altro veicolo. Considerando che proprio ieri Moody’s, confermando il rating del gruppo a Baa3 per il debito a lungo termine, ha sottolineato i rischi per il giudizio qualora non si risolvesse il contratto con Ilva in maniera tempestiva come annunciato, cedere allo Stato italiano una quota societaria permetterebbe all’investitore di alleggerire la propria posizione finanziaria. Invece di una nazionalizzazione, ipotesi che comunque il governo non esclude, il governo e Mittal potrebbero ricucire lo strappo diventando soci e quindi condividendo il progetto di risanamento e rilancio del siderurgico italiano. 
Sul fronte occupazionale il quadro è delicato. Secondo quanto ricostruito, l’ipotesi dei 5.000 esuberi non sarebbe stata proposta da Mittal ma sarebbe invece frutto di una risposta data dal gruppo al governo italiano che, durante il primo incontro con gli azionisti, ha chiesto quale sarebbe stato il fabbisogno di lavoratori se l’investitore avesse gestito solo gli impianti del ciclo a freddo. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha già dichiarato che quel numero è irricevibile, ma alla fine pure l’ipotesi di separare la gestione del ciclo a caldo da quello a freddo sembra più teorica che altro.
Secondo alcuni, il punto di caduta sul tema occupazionale potrebbe stare intorno alle 2.500 unità, con un ricorso massiccio alla cassa integrazione. Il punto è capire se si tratterà di una misura congiunturale, tesa a superare le difficoltà dei prossimi due anni, oppure strutturale e pertanto più difficile da assorbire.
Il gruppo che voleva investire 4 miliardi ha ottimi motivi per lasciare l’Italia. I conti del terzo trimestre segnano un rosso di oltre 500 milioni, i dazi americani hanno acuito la crisi e l’atteggiamento cangiante del governo italiano ha fatto il resto. Per Mittal lasciare significa recuperare 1,2 miliardi subito e incassare il consenso dei mercati finanziari sul titolo. Ma anche perdere l’opportunità di trovarsi a produrre acciaio in Italia con la più grande acciaieria d’Europa quando il ciclo ricomincerà a salire.
Il governo si prepara al peggio studiando exit strategy, ma non rinuncia a tentare la strada del negoziato, mettendo in conto di fare qualche concessione. Le carte restano coperte. Prossima settimana potrebbe tenersi un altro incontro. A conferma del tentativo di ricucire il fatto che i commissari di Ilva As presenteranno istanza all’autorità giudiziaria per chiedere che il termine (13 dicembre) fissato dal tribunale per l’adeguamento dell’altoforno 2 sotto sequestro venga prorogato. Jindal, dopo essere stato tirato in ballo negli ultimi giorni, «smentisce con forza» un suo interesse per Ilva.