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 2019  novembre 08 Venerdì calendario

Quattro scenari per il futuro dell’Ilva

Quattro scenari. Quattro ipotesi fra chimere e desideri, progetti e fallimenti. Nel buio di un punto di caduta che si consumerà drammaticamente nelle prossime settimane. Il primo scenario è una amministrazione straordinaria estesa all’intero corpo dell’Ilva. Con un commissario straordinario che sia una sorta di amministratore delegato in grado di operare con pieni poteri. La politica – affannosamente – sta provando a stilare dei nomi. In giro, però, non c’è un Enrico Bondi. L’amministrazione straordinaria, che porrebbe non pochi problemi giuridici perché la società pur perdendo tantissimo non è tecnicamente in default, riporterebbe di fatto l’Ilva nel pieno perimetro pubblico. Il secondo scenario è una nazionalizzazione mascherata. A questa guardano politici e sindacalisti di ogni parte. L’idea, che risponde perfettamente agli impulsi statalisti perenni nel corpo sociale, culturale e politico italiano, è quella di usare la Cassa Depositi e Prestiti – o una società da essa controllata, con uno statuto acconcio e il placet delle fondazioni ex bancarie – per finanziare una operazione che, fra copertura delle perdite e finanza di impresa con cui ristrutturare, costerebbe all’impronta non meno di un miliardo di euro (600 milioni di euro a parziale copertura delle perdite e 400 milioni per l’operatività). Tre piccoli problemi: che cosa ne pensano i vertici di una Cassa Depositi e Prestiti ormai trattata come la Madonna portata in processione ogni volta che c’è un grosso problema, che cosa ne pensa l’Unione Europea sugli aiuti di Stato e che cosa ne pensano i Mittal, che dovrebbero cedere la società e decidere contestualmente se fare una causa miliardaria contro lo Stato italiano. Con questa nazionalizzazione mascherata, ci sarebbe un ultimo, fondamentale, problema: chi la gestirebbe? Un imprenditore siderurgico italiano? Una serie di imprenditori siderurgici, così che si possa rinverdire il mito della cordata? Può darsi, a patto però di avere tutte le garanzie giuridiche tolte ad ArcelorMittal e di non mettere un euro dalle loro tasche. Il terzo scenario è la Mini Ilva. I Mittal hanno lanciato la provocazione: voi vi riprendete l’area a caldo e noi ci teniamo l’area a freddo. Al di là del confronto duro e deteriorato fra la multinazionale e il Governo, questa idea di chiudere l’area a caldo è, in realtà, stata spesso invocata da più parti come fattibile, se non auspicabile, perché diminuirebbe l’impatto ambientale e perché riporterebbe l’impianto a una dimensione più gestibile, in grado di avere una autonomia in sé e per sé e, anche, di risultare compatibile e combinabile con i progetti sulla decarbonizzazione, ormai il vero mito salvifico di Taranto, con l’indiano Sajjan Jindal diventato l’imprenditore di riferimento dell’ex premier Matteo Renzi, del presidente della Puglia Michele Emiliano e del titolare grillino del Mise Stefano Patuanelli. Peccato che, nello schema di funzionamento più elementare, i conti non tornino. Prima di tutto perché la sola area a freddo potrebbe funzionare con 2.500 addetti. E gli altri 8mila? Tutti in cassintegrazione per trenta-quarant’anni? Questo impianto comporterebbe un output di 4 milioni di tonnellate di prodotto laminato. Il tema è che l’Ebitda, la redditività industriale lorda, è la metà per i “laminatori” (i siderurgici che operano con la sola area a freddo) rispetto ai “produttori”, di cui l’Ilva con il ciclo integrale di Taranto e gli insediamenti di Novi Ligure e Cornigliano è stata il maggior esemplare europeo: 5% del fatturato la redditività industriale lorda per i primi e 10% per i secondi. Dunque, in ogni caso, sarebbe un impianto assai più debole nella logica industriale e finanziaria, reddituale e occupazionale. Nella sua versione più basica, consentirebbe una sorta di “dissolvenza astuta” della questione dell’Ilva. Quarto scenario: la situazione esplode, ArcelorMittal restituisce definitivamente e in toto gli impianti, lo Stato italiano tenta di congegnare soluzioni di statalizzazione sostanziale e fallisce, si entra nella terra di nessuno di una mano pubblica che, come misura insieme “massima” e “minima”, abbandona la vocazione siderurgica e si occupa soltanto di fare le bonifiche. Auguri. Perché lo Stato italiano, trent’anni fa, ha rivestito la stessa funzione a Bagnoli, quando ha chiuso l’Italsider. Non è andata proprio bene. E se Bagnoli, per l’ambiente e la salute pubblica, ha rappresentato l’equivalente di una fuga di gas che ha ridotto in macerie un palazzo intero, Taranto è molto di più. Taranto è come Chernobyl.