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 2019  novembre 06 Mercoledì calendario

Su "Nulla di ordinario. Su Wisława Szymborska" di Michał Rusinek (Adelphi) - con un’intervista all’autore

Lotterie con premi durante cene con amici, collage e collezioni di oggetti kitsch, l’amore per l’Italia e l’insofferenza per i viaggi. E anche la gratitudine che sconfinava nella venerazione per i traduttori delle sue opere (nel nostro Paese, per il compianto Pietro Marchesani). Nel 1996, appena insignita con il Nobel per la Letteratura, Wislawa Szymborska assume come segretario un giovane studioso di letteratura polacca, Michal Rusinek. Che ora, in un libro pieno di aneddoti, storielle, ma anche riflessioni sul linguaggio e l’arte di scrivere versi, Nulla di ordinario (Adelphi, a cura di Andrea Ceccherelli, in libreria da domani), racconta la grande poetessa polacca nel quotidiano: ironica, curiosa, umile ma non modesta, alla costante ricerca di motivi, oggetti, persone che potessero destare il suo stupore, perché è dallo stupore che nasce la poesia.

Nessun grande uomo è grande per il proprio cameriere, sono parole spesso citate di Hegel. Lei non era un cameriere ma un sottoposto sì. Szymborska era grande per lei, nonostante l’abbia vista ogni giorno per oltre quindici anni, magari senza rossetto, in ciabatte e di cattivo umore?
"Non l’ho mai vista in ciabatte né senza rossetto. Perfino negli ultimi momenti della vita (è scomparsa nel 2012), prima degli incontri con me, chiedeva all’infermiera di "prepararla", di curare il suo aspetto. Era di un’eleganza all’antica. E poi non mi trattava da sottoposto. Ci davamo del lei. Un giorno mi scrisse una dedica: "Al signor Michal per l’aiuto nella vita". Ero un suo aiutante. Aggiungo che era lei a preparare il caffè alla donna delle pulizie. Caffè solubile, purtroppo". 

Alle abitudini alimentari torneremo. Nel libro racconta come tagliò con le forbici il filo del telefono che squillava giorno e notte dopo il Nobel e come Szymborska esclamò "lei è un genio". Era il momento in cui guadagnò la sua fiducia?
"Non saprei. Ma posso raccontare una storiella. Un giorno, in occasione della pubblicazione di un mio libro, uscì una mia intervista su Gazeta Wyborcza. Szymborska mi disse: "L’ho letta. Noiosa. Preferisco quando lei parla di me". Era un atto di fiducia".

Era conscia della sua grandezza?
"Diceva che grande era Czeslaw Milosz (Nobel nel 1980, ndr), mentre lei era un poetessa ordinaria. Ma penso che avesse il senso del proprio valore. I temi di cui voleva parlare avevano una precisa gerarchia. Se erano importanti componeva una poesia: per lei la poesia era una forma di conversazione. Se voleva dire qualcosa di non fondamentale ne scriveva sulla sua rubrica su un giornale. La forma più bassa era l’intervista. Un giorno, a una domanda di un giornalista rispose: "Ci devo riflettere. Ripassi fra qualche mese"".

Infatti le poesie di Szymborska trattano la quotidianità: un gatto, un bicchiere, una sedia. Il contrario del modello polacco del poeta maschio, profeta, guida della Nazione. Che rapporto aveva con questo tipo di poesia maschile?
"Per lei la poesia non aveva genere. Considerava i grandi festeggiamenti in occasione di compleanni importanti (abitudine polacca) roba da uomini. Lei voleva festeggiare il quotidiano".

Insisto sulla scrittura intima. Lei, Rusinek, ha regalato la statuetta di un gatto della libreria di Szymborska a Olga Tokarczuk, recente Nobel. Lo ha fatto perché scrive in un modo simile?
"Sì. Ma volevo anche creare un legame simbolico fra le due. Tokarczuk mi ha detto che avrebbe messo la statuetta su uno scaffale dedicato a lei. Le ho risposto: no, lo devi collocare su uno scaffale ordinario, fra i libri".

Parliamo del rapporto con l’Italia. Qui cominciò a pubblicare i suoi versi Vanni Scheiwiller. Poi arrivò Adelphi e una popolarità senza pari rispetto agli altri Paesi, a eccezione della Polonia.
"Fu un amore reciproco. Non amava viaggiare. Ma nel caso dell’Italia era diverso, adorava la cucina, il clima, stava bene. Una volta a Portofino disse: qui è troppo bello per poter scrivere".

Amava la cucina, ha detto. Un pietanza in particolare?
"Ci devo pensare. Ma sì, pesce spada, gli scampi. Niente cozze, vongole e simili. E certo, l’espresso, doppio".

Però mangiava anche la pizza e le alette di pollo dei fast food.
"Il cibo per lei era solo l’accompagnamento della conversazione. Però aveva la sua specialità: involtini di manzo con grano saraceno, accompagnati da vodka. Una pietanza arcipolacca". 

Non era cattolica.
"Ho trovato un abbozzo di testamento in cui dice che avrebbe voluto un funerale laico, per avviarsi da sola nel suo ultimo viaggio. Perché "Dio farà di me ciò che vorrà". Aveva un sentimento spirituale alternativo alla religiosità".

Nelle sue poesie era presente un forte elemento di trascendenza?
"Certo. Però lei non l’avrebbe mai detto così. Ai discorsi filosofici preferiva l’aneddoto. Aveva un rapporto serissimo con la parola. La parola non doveva descrivere ma creare una realtà, un luogo, un tempo. Da questo punto di vista la parola era una forma di trascendenza".

Fumava tanto. Qualcuno ha cercato di convincerla a smettere?
"Una volta ci provò un medico nell’ascensore dell’ospedale. Gli rispose: "Dottore, voglio continuare a scrivere". Non poteva scrivere senza fumare. Aggiungo: Szymborska era convinta che la poesia dovesse essere pronunciata a voce alta, uscendo dalla bocca. Le frasi e i versi corrispondevano allo spazio temporale del respiro. Con l’età e con il fumo il respiro diventava sempre più corto, e così sempre più brevi erano i versi".