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 2019  novembre 06 Mercoledì calendario

Risparmio, solo una banca su tre svela i costi

Falsa partenza per l’operazione trasparenza sui costi sostenuti per gli investimenti dalle famiglie italiane. La svolta epocale attesa con l’avvento a gennaio 2018 della Mifid2 è rinviata ancora di un anno: l’obiettivo di rendere più chiaro e comprensibile per i risparmiatori l’impatto dei costi sui rendimenti attesi ed effettivi è ancora molto lontano da raggiungere. A innalzare il “muro” per ostacolare la visuale sui costi ai clienti ci hanno pensato le banche e gli altri intermediari finanziari. In tutti i modi e per il momento ci sono anche riusciti.
Missione (in)compiuta
A sancirlo è una ricerca svolta dalla School of Management del Politecnico di Milano, commissionata da Moneyfarm, che ha analizzato la reportistica messa a disposizione degli investitori ex post (ovvero a consuntivo, per rendere tangibili i costi effettivi pagati da ogni singolo risparmiatore) da 18 fra i maggiori intermediari finanziari focalizzati su una clientela retail. Con Mifid2, va ricordato, le banche devono ogni anno inviare il dettaglio degli oneri sostenuti realmente da ogni singolo cliente, anche in valore assoluto e non solo in percentuale. In più nel resoconto di fine anno devono illustrare, con trasparenza e semplicità, l’incidenza del costo totale sul rendimento. Informazione basilare, quest’ultima, richiesta dal legislatore per aiutare l’investitore a percepire la relazione tra costi e rendimenti dell’investimento.
Neanche il minimo di legge
Eppure, come emerge dallo studio del Politecnico, non tutti gli intermediari hanno reso trasparente l’effetto cumulativo dei costi sulla redditività dell’investimento. Nel 44% dei casi l’indicazione è parziale e viene omesso il dato sul rendimento lasciando l’indicazione solo per il costo sostenuto, mentre nel 6% dei casi l’informazione è del tutto assente. Anche sul fronte degli oneri fiscali che vanno riportati obbligatoriamente, è emerso che nel 22% dei rendiconti analizzati la voce è presente solo parzialmente, mentre nell’11% dei casi questi oneri non sono stati affatto illustrati ai clienti.
Solo cinque banche su 18 hanno rispettato i requisiti minimi richiesti dalla direttiva comunitaria. Nel dover rendicontare per la prima volta l’impatto dei costi sui rendimenti, proprio nell’anno in cui oltre il 90% delle asset class ha registrato performance negative, le banche hanno fatto di tutto per celare le informazioni più salienti.
Moral suasion poco incisiva
E se solo poche banche hanno fatto lo sforzo minimo per poter essere ritenute adempienti rispetto agli obblighi di trasparenza imposti da Mifid2, la totalità del campione analizzato ha disatteso le best practice suggerite dall’Esma. Orientamenti che, seppur non obbligatori, indicano le prassi di mercato più virtuose che gli operatori dovrebbero adottare per perseguire al meglio l’obiettivo della normativa. A partire dall’invio del rendiconto “prima possibile”. Una raccomandazione dell’Esma che gli operatori non hanno preso alla lettera cercando in tutti i modi di inviare la rendicontazione in estate quando la clientela in vacanza è più disattenta. Nel campione di 18 intermediari analizzato dal Politecnico solo 2 hanno inviato il report a maggio 2019, 2 a giugno, 11 a luglio, 2 in agosto e uno addirittura a settembre.
Gli espedienti per celare i costi
Dallo studio emergono anche altre strade che gli intermediari hanno seguito per cercare di non rendere visibile il reale peso dei costi sugli investimenti: solo il 28% dei documenti riporta informazioni focalizzate esclusivamente sui costi, mentre nel 72% dei casi le informazioni sono parte di documenti più dispersivi che contengono altri messaggi, anche di tipo pubblicitario.
Alcuni intermediari hanno scelto di pubblicare report molto sintetici, altri invece hanno prodotto rendiconti decisamente più lunghi: il 28% dei documenti rimane entro le 5 pagine, il 39% si posiziona nella fascia fra 10 e 30 pagine, mentre il 17% contiene più di 30 pagine. Il valore medio è pari a 14,6 pagine.
Solo il 50% dei rendiconti, inoltre, contiene la parola “costi” o “oneri” nell’intestazione del documento: questo significa che la metà degli intermediari, inviando il rendiconto ai propri clienti, ha preferito non chiamarlo con il suo nome.
Altre evidenze
L’indicazione disaggregata dei costi fra le varie voci previste dalla normativa è stata fornita solo nel 56% dei documenti analizzati. Nel 67% dei casi è stata comunque esplicitata l’indicazione che i clienti avrebbero potuto accedere a informazioni disaggregate esercitando il diritto di richiesta previsto dalla normativa. Il 72% dei rendiconti riporta anche le informazioni sulla fiscalità personale sui redditi conseguiti (capital gain, ad esempio).
Ma il risultato più negativo è quello relativo alla trasparenza sui “pagamenti riconosciuti da terze parti”: solo un intermediario li definisce come tali, conformemente alle indicazioni dell’Esma, mentre gli altri hanno scelto di usare una terminologia diversa (“incentivi”, “inducements”, “retrocessioni” o altro) per non rendere immediatamente comprensibile che la banca incassa una somma dalla casa d’investimento per gli strumenti finanziari raccomandati o offerti ai propri clienti.
Rimane quindi ancora molta strada da percorrere per dare piena trasparenza ai risparmiatori italiani sui costi che pagano per la gestione dei loro investimenti.