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 2019  novembre 06 Mercoledì calendario

I giornalisti sono quasi tutti da una parte sola


La caduta del Muro di Berlino è stato un evento epocale. Ha segnato la fine della guerra fredda, ha fatto riassaporare la libertà a metà Europa e venire meno la minaccia comunista, almeno sul nostro continente. Ma come spesso accade con i fenomeni complessi, altre conseguenze meno ovvie, figlie di tale evento, si sono materializzate negli anni successivi, e non tutte si sono rivelate necessariamente apprezzabili. In primo luogo, la fine della principale narrazione ideologica alternativa al capitalismo ha inevitabilmente e drammaticamente ridotto le divergenze ideologiche tra i partiti, a partire da quelle in economia. Oggi chi sosterrebbe la nazionalizzazione di questo o di quel settore? Nessuno (o quasi...). L’avvento dell’euro, della troika, e di tutto il resto, ha accentuato ancor di più questa dinamica. E se i partiti non possono più differenziarsi tra di loro parlando di questi temi, ecco che ne cercheranno (disperatamente) di nuovi.Da qua l’emergere prepotente nell’arena della competizione elettorale di tematiche potenzialmente esplosive come, per esempio, la corruzione (e connesso «partito degli onesti»), o, e più recentemente, le critiche all’establishment e alle varie élite (politiche certamente, ma anche, se non soprattutto, culturali), dipinte come una «casta» sempre più distante dai cittadini (ed elettori) comuni. Il fatto che fare propria la bandiera dell’anti-establishment frutti da un punto di vista politico particolarmente bene (basti pensare al successo nel 2016 di Donald Trump, per fare un nome su tutti) implica in qualche modo che siffatte critiche sono sentite da taluni (se non da molti) come credibili.
Il punto è che se lo sono diventate credibili, una qualche voce in capitolo la caduta del Muro di Berlino (anche in questo caso) ce l’ha. Nel periodo pre Muro, la discriminante della cortina di ferro e della Nato, della contrapposizione tra Mondo libero e Mondo comunista, era un potente fattore che produceva, per la sua stessa esistenza, una varietà di posizioni all’interno del mondo delle élite culturali. La risultante era la formazione di poli contrapposti, magari non di dimensioni comparabili (l’attrazione per il comunismo è sempre stata forte in molti paesi, incluso il nostro, per una certa fascia di persone), e non necessariamente omogenei al loro interno, ma certamente non completamente squilibrati.
Pensiamo giusto alla ricchezza e varietà del pensiero conservatore e liberale negli anni ’80 di Reagan e della Thatcher. Sotto le macerie del Muro è finita però anche questo efficace strumento di dissuasione. Con il risultato che, da quel momento in poi, venuto meno lo spauracchio del comunismo, non c’è stato più nulla (o quasi) a frapporsi all’influenza che il pensiero «politicamente corretto» liberal (che, senza la «e» finale, è ben altra cosa rispetto a quello liberale) ha esercitato (e continua ad esercitare) sulla nuova generazione di élite, attratta verso lo stesso come falena con la luce.
L’Italia, da questo punto di vista, è alla frontiera. Due dati per dare l’idea: secondo l’ultima tornata di sondaggi del The Worlds of Journalism Study, i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra in Europa, superando Spagna e Grecia. Lo stesso si può dire, stante ad un sondaggio demoscopico di qualche anno fa, per gli esperti italiani di politica. E non si tratta solo della posizione media. Perché la varietà di opinioni latita, a essere generosi. Altro che egemonia gramsciana! Al contrario, la società italiana continua testarda a vedere la chiara prevalenza di posizioni moderate, se non di centrodestra, con il risultato che il gap ideologico tra l’elettore mediano e il rappresentante tipico dell’élite, continua drammaticamente a crescere con il passare degli anni. Ovviamente questa discrasia tra élite e cittadini non sarebbe un problema se i primi non venissero sovente smaccatamente influenzati dalle proprie posizioni ideologiche quando si tratta di discutere di politica (e non solo). Ma, stante almeno alla percezione della «casalinga di Voghera», questo non sembra il caso. E facendo un giro su Twitter, o guardando qualche trasmissione televisiva, non viene difficile capire il perché.
Come risolvere allora la cosa? Ricostruendo forse il Muro o sperando in una rinascita di una minaccia comunista dalle nostre parti per ridare (finalmente) di nuovo un po’ di pluralismo ideologico al nostro establishment? Insomma, si stava meglio quando si stava peggio? Giammai! Semmai, e più prosaicamente, le élite dovrebbero riscoprire il gusto di una maggiore oggettività nonché l’importanza di aprirsi alla comprensione, o per lo meno, all’accettazione, della legittimità di idee altre rispetto alle proprie, invece di trattare tutto ciò che non concorda con la loro visione del mondo come posizioni figlie di un Dio minore.
Questo aiuterebbe ad alleviare quel senso di alienazione e di distacco che, chi élite non è, sente proprio. Una strategia che, tra l’altro, aiuterebbe e non poco a minare quella stessa attrattività presso il grande pubblico di chi fa del messaggio anti-establishment la sua ragione d’essere (in primis, i populisti), con grande felicità dell’élite culturale di cui sopra. Questo sì che sarebbe un ulteriore lascito positivo della caduta del Muro. Se si riuscisse davvero a farlo, ovvio. Perché conoscendo la vanagloria della nostra élite, i dubbi ahimè non possono che persistere.
Luigi Curini, ordinario all’università degli Studi di Milano