ItaliaOggi, 6 novembre 2019
Così i nostri padri ci hanno rubato il futuro
L’ultima fatica di Francesco Vecchi, per i tipi di Piemme, è un libro arrabbiato. Già dal titolo, I figli del debito, non promette niente di buono. Peggio, il sottotitolo rende ancora più amaro il boccone: «Come i nostri padri ci hanno rubato il futuro». Un libro testimonianza, perché l’autore è un figlio del debito (e chi di noi non lo è, verrebbe da dire) e nelle pagine del suo resoconto unisce i puntini, a tratti con veemenza e frustrazione, su quali possano essere le ragioni del pantano economico in cui si ritrova l’Italia.Un pantano che per Vecchi ha una data e delle ragioni ben specifiche: il 1992, con la nascita della debt generation. L’entrata dell’Italia in Europa, con la firma del trattato di Maastricht ha comportato per l’Italia un’inversione a U della corsa dissennata delle finanze pubbliche. «Fino al 1992», scrive Vecchi, «chi ha lavorato ha goduto di una mano invisibile: mio padre e i suoi coetanei si sono pagati gli stipendi col frutto del loro lavoro ma anche con qualche soldo preso in prestito dal futuro. Dopo il 1992 è stato il contrario, è stato come correre con una mano legata dietro alla schiena: di quello che abbiamo prodotto, una parte ci è stata portata via».
I 27 anni dell’Italia intrappolata nelle regole europee sono stati tempi, dunque, di scelte economiche obbligate, sia ripagando i danni compiuti in precedenza, quando si è speso e vissuto al disopra delle reali possibilità del paese, sia scaricando sulle generazioni future le scelte, soprattutto sul tema delle pensioni, con l’invenzione del dogma intoccabile dei diritti acquisiti a discapito, come sottolinea più volte Vecchi nei passaggi del libro, dei diritti erosi delle nuove generazioni.
Potevamo sfilarci da queste regole? No, scrive anche in questo caso con i numeri alla mano il giornalista di Mediaset: «Senza la svolta del 1992 oggi il debito pubblico sarebbe il 300% del pil: tre volte la ricchezza nazionale. Nutrirlo ci costerebbe più di tutto il sistema sanitario nazionale». Nessuna via di uscita? Sembrerebbe di no, almeno a scorrere i capitoli del libro, un racconto di alcuni grandi temi sociali e politici con linguaggio comprensibile anche ai non tecnici: chi può, fugge all’estero, ci sono i baby pensionati e i pensionati che rubano per necessità, e si soccombe anche di fronte alle scelte di un sistema scolastico sbagliato.
Forte pure della sua esperienza di giornalista, Vecchi mette in fila testimonianze e numeri per raccontare sinteticamente il paese, un saggio che, appunto, fa molto arrabbiare chi, come lui, è figlio del debito, e che in Italia è rimasto e prova a viverci e a lavorare con serietà. Per Vecchi «chi si ostina a pensare all’Italia in termini di diritti acquisiti non sta facendo altro che tenersi la coperta tutta per sé. E se questi diritti sono difesi dalla Costituzione è il segno che anche lì bisogna intervenire. Cambiare la nostra Carta non può essere un tabù». E getta, come sasso nello stagno, una proposta di risposta alle prediche dell’Unione europea: condividere il debito degli stati dell’Ue. Una proposta quasi indecente, la condivisione del debito sovrano, che, secondo Vecchi, sommato insieme col debito dei paesi europei arriverebbe all’80% della loro ricchezza: «Ma da un giorno all’altro nascerebbe un gigante mondiale, reso ancora più forte da quella coesione che oggi manca».
Tuttavia, alla base di tutto, c’è sempre l’antropologia intrisa di religione. Debito, nella lingua dei paesi del Nord, vuol dire anche colpa, in una visione luterana. E quindi, ancora una volta, chi è causa del suo mal (l’Italia) pianga sé stesso.