Chi era Bocelli venticinque anni fa?
«Un giovanotto con i capelli lunghi e il chiodo, a cui sarebbe cambiata la vita. Tornato a casa a Lajatico persino mio babbo era a disagio, mi trattava in modo diverso. Pensai: è impazzito.
Ero quello di prima, ma la vittoria al festival aveva cambiato gli equilibri. Prima lezione: imparare a gestire il successo se non vuoi che sia lui a farlo. Per questo contano i valori».
Con sua moglie Veronica ha creato una fondazione, nelle Marche avete ricostruito una scuola, vi siete impegnati ad Haiti. Il successo dà il potere di fare le cose?
«La scienza crea la lama e l’uomo decide se farne un’arma per uccidere o il bisturi per curare. Il buon Dio ci dà dei doni, a me ha dato la voce, uno strumento potente che si traduce in termini pratici: soldi, benessere. Quando te ne rendi conto, devi decidere come usare il tuo dono. Dicono che l’altruismo sia la peggior forma di egoismo, un po’ di verità c’è se ti fa stare bene».
Ha venduto 90 milioni di dischi, che effetto fa?
«In sé per sé nulla. Conta l’affetto della gente, entri in milioni di case. La voce del cantante diventa parte della famiglia, a me è successo con Franco Corelli».
"Sì Forever" è un titolo assertivo.
«Sono parole impegnative e bellissime. "Sì" mi sembra perfetta in un periodo in cui ci sentiamo dire troppi no: dalla pubblica amministrazione, dagli altri. C’è bisogno di positività e fiducia».
Ha 60 anni: l’età le pesa?
«Psicologicamente sì, fisicamente no. Sono pigro però amo lo sport. Continuo ad andare a cavallo, sono caduto decine di volte. A casa si arrabbiano, ma quando si cade bisogna rialzarsi».
Le hanno mai chiesto di fare politica?
«Tante volte, a destra e a sinistra. Ho detto di no perché mi piace fare le cose che so fare. Non sono nemmeno diplomatico. E poi un artista appartiene a tutti. In democrazia i politici sono un campione di quello che siamo, l’unica speranza è che si cambi noi come popolo. È l’unica rivoluzione auspicabile. Quando rovesci il potere e ti metti al suo posto ti ammali della stessa malattia».
Pavarotti le voleva bene. Come si riconosce il talento?
«Pavarotti è stato onesto con me da quando mi ha sentito la prima volta.
Il talento, la propensione al canto, la riconosce chi pratica la stessa arte, come i bari riconoscono i bari. Ricordo quando David Foster e Tony Renis mi dissero: "Ti facciamo ascoltare un giovane". Mi sono bastati venti secondi per capire che era un talento: era Michael Bublé».
Chi è stato determinante nella sua vita?
«Mia madre, donna fortissima. Mi ha spinto a studiare, a impegnarmi; ha saputo lasciarmi andare e trattenermi. Ma mi ha fatto fare tutto quello che facevano gli altri».
E suo padre?
«Mi diceva: "Andrea, devi andare in America". Ho un rimpianto: quando ho cantato a Central Park a New York, nel 2011 lui non c’era più. Ero in camera a riposarmi, prima del concerto. Veronica mi fa: "Manhattan è bloccata per vedere te, ti sembra normale?". Mi sono commosso ricordando l’infanzia in campagna, tutto quello che avevamo sperato con i miei genitori. Mamma era con me, il babbo no. Ho pensato che mi avrebbe visto dal cielo, ma non sarebbe stata la stessa cosa».
Come è cantare per il Papa o per i presidenti?
«Non è la personalità di chi mi sta davanti a fare la differenza, sono sempre emotivo. Ci può essere un presidente che non ha mai sentito un’opera in vita sua e poi c’è il vigile del fuoco che fa servizio. Sta lì, tutte le sere. Penso a lui: se sbaglio se ne accorge».
È un uomo sereno, non ha mai provato rabbia dopo che da ragazzino ha perso la vista?
«Non ci ho mai neanche pensato. Sarei un ingrato. Ciascuno di noi è quello che è, con le proprie caratteristiche. Sono estremamente fortunato, sono stato amato fin da bambino, ho frequentato le donne che mi piacevano e sono affettivamente appagato».
Il suo posto del cuore?
«Casa mia. Ma Israele è un luogo dove il contatto col cielo è più diretto. Mi affeziono ai posti, New York mi ha dato tanto. E mi piace l’atmosfera di Miami. Infatti ho comprato casa».