Corriere della Sera, 6 novembre 2019
Siamo nella società della rendita
In un bel libro appena pubblicato Luca Ricolfi sostiene che l’Italia è una «società signorile di massa» in ragione del fatto che «l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi di quelli che lavorano». In una società di questo tipo, più che dall’iniziativa e dall’impegno personale, il benessere è garantito sulla base di una rendita cui si accede attraverso una qualche appartenenza: la famiglia d’origine con la sua ricchezza accumulata, il trasferimento più o meno clientelare di risorse pubbliche, l’acquisizione di una posizione protetta (per esempio l’occupazione pubblica o l’ingresso in un gruppo professionale chiuso). Oltre che dallo sfruttamento del «lavoro servile». Tradizionalmente rappresentato dal lavoro nero e oggi moltiplicato dall’esercito degli stranieri, spesso sottopagati e impiegati in condizioni che rasentano il neo schiavismo (caporalato in agricoltura, la gig economy nei servizi, le badanti nel lavoro domestico e così via).
L’uscita dal sentiero della crescita è cominciata già negli anni 80 proprio quando, raggiunto il benessere, la società italiana si è fermata quasi rinunciando a prendere parte alla nuova fase storica chiamata «globalizzazione». Che cosa è stato il berlusconismo se non la traduzione, nella forma più provinciale, dello scambio «finanza per consumi» che ha caratterizzato l’economia mondiale post 1989? Sta di fatto che, da allora, gli italiani hanno cercato di conservare più che di produrre ricchezza, rinunciando a investire nel loro futuro.
A questo ragionamento occorre aggiungere un ulteriore tassello. Se si guarda la curva dalla distribuzione del reddito si vede che, nel momento in cui si comincia a superare la crisi finanziaria, solo una parte della popolazione (circa il 40%) riesce ad agganciarsi al nuovo trend. Mentre per il 50% (!) più fragile, l’arretramento prosegue senza sosta.
In sostanza, nei nuovi assetti post crisi, la società signorile di massa comincia a scricchiolare sempre più pericolosamente.
Si tenga conto poi che quel 50% da anni in difficoltà si concentra in base ad alcuni parametri: area geografica e territoriale (soprattutto al Sud e nelle periferie); livello di istruzione e stabilità lavorativa; età (anziani e giovani); genere e condizione familiare (soprattutto donne e famiglie numerose). Ciò significa che il declino del benessere si percepisce poco nei centri delle nostre città o nei quartieri universitari. Ma diventa evidente e palpabile in tante altre zone del Paese. Basterebbe fare un giro in queste aree per capire che il problema economico del reddito è ormai tutt’uno con la questione culturale e sociale.
È da questo terreno di coltura che nasce il successo di Salvini e Meloni, che in Umbria hanno sfiorato il 50% dei consensi. Vista la parabola molto veloce quanto effimera del M5S, la destra sovranista è oggi nelle condizioni di dar voce al malessere profondo che attraversa la società italiana. Tanto più che il Pd tende a rappresentare quasi solo quei ceti capaci di rimanere agganciati ai percorsi di modernizzazione.
Che cosa chiedono i tanti che negli anni si sono immiseriti? Se, come si è sostenuto, quella italiana è una società signorile di massa oggi in via di disfacimento, la domanda che arriva al sistema politico non è tanto quella di tornare a produrre valore – operazione difficile, incerta e faticosa – quanto piuttosto quella di poter continuare a disporre di un tenore di vita elevato. E il ritorno di Berlusconi nella compagine di centrodestra – seppur in una posizione marginale – tempera l’immagina «dura» dell’alleanza sovranista, facendo intendere che è proprio quello lo scopo che si intende perseguire. Proteggere quel benessere che sta svanendo è il primo desiderio degli italiani. Con l’idea che, in ultima istanza, ciò dipenda dal mettersi nelle mani di qualcuno capace di garantirci. Non andavano esattamente in questa direzione misure come il reddito di cittadinanza e quota 100?
Per raggiungere un tale risultato occorre combattere contro quei poteri che minacciano lo status quo. Da un lato l’Unione europea e la sua politica di austerity che parla un linguaggio del tutto diverso da quello della società signorile di massa. E dall’altro i migranti che, se per un verso costituiscono lo strato servile che permette di tirare avanti, dall’altra parte danno corpo alla paura latente che il nostro mondo sia destinato a sparire.
Ciò pone un problema alla sinistra la cui narrazione – tutta centrata sui doveri europei a cui si è aggiunto di recente il tema della sostenibilità – rischia di parlare solo al 40% che ce la sta facendo. Ma interpella ancora di più la destra, che ottiene il suo consenso sulla insoddisfazione e le paure diffuse. Senza indicare con chiarezza il percorso che intende seguire per sbloccare la situazione. Il problema – che riguarda tutti, destra e sinistra – è che per larga parte degli italiani sembra ormai molto difficile – forse addirittura improponibile – immaginare di tornare a salire sul treno di una crescita che richiede impegno, intelligenza, solidarietà. Se almeno riconoscessimo che abbiamo un problema comune e che le risposte sono comunque difficili sarebbe già un primo passo. Tutto il resto è chiacchiera e propaganda, destinate solo ad aggravare i problemi.