La Stampa, 6 novembre 2019
A Dresda, dov’è stata proclamata l’emergenza nazismo per l’infittirsi di violenze e manifestazioni razziste a braccia tese, fino a trent’anni fa la Frauenkirche, la Chiesa di Nostra Signora, era rimasta un cumulo di macerie, un monumento della Germania Est comunista alla malvagità dell’Occidente
A Dresda, dov’è stata proclamata l’emergenza nazismo per l’infittirsi di violenze e manifestazioni razziste a braccia tese, fino a trent’anni fa la Frauenkirche, la Chiesa di Nostra Signora, era rimasta un cumulo di macerie, un monumento della Germania Est comunista alla malvagità dell’Occidente. Nella notte fra il 13 e il 14 febbraio del 1945 il bombardamento degli Alleati risparmiò la Frauenkirche, ma le fiamme entrarono dalle finestre, fecero scempio e dopo qualche giorno, quando la temperatura era scesa dai mille gradi del picco, la chiesa collassò. Quella notte Dresda, una delle più belle città medievali tedesche, venne rasa al suolo da mille e cinquecento tonnellate di bombe esplosive e mille e duecento tonnellate di bombe incendiarie. Più o meno la stessa sorte toccata ad Amburgo, Norimberga, Colonia. Nel 1997 il grande scrittore Winfried Georg Sebald tenne una serie di conferenze sulla poetica di guerra, avventurandosi in un viaggio dall’approdo imprevedibile: le conferenze originarono un libro titolato Storia naturale della distruzione, uscito nel 2001, pochi mesi prima che Sebald morisse in un incidente stradale. Sebald aveva realizzato l’incapacità e più spesso la rinuncia degli scrittori tedeschi non soltanto a raccontare la Shoah, ma anche la conseguente e devastante punizione alla Germania. Tacquero gli scrittori e tutti gli altri. Bisognava tacere e ricostruire. Tacere e ricostruire. Il non voler prendere coscienza fu il presupposto del successo dei tedeschi, disse il poeta Hans Magnus Enzensberger.
Che succedeva durante i bombardamenti, Sebald lo raccontò così: «Già un quarto d’ora dopo la caduta delle prime bombe, l’intero spazio aereo divenne un unico mare di fiamme (…) Il fuoco, levandosi in cielo in vampe alte duemila metri, attirava a sé l’ossigeno con una violenza tale che le correnti d’aria raggiunsero la forza di uragani (…) Giunta al culmine, la tempesta prese a sollevare i cornicioni e i tetti delle case, sradicò alberi e trascinò con sé esseri umani trasformati in fiaccole viventi. Dietro le facciate che crollavano, lingue di fuoco alte come palazzi salivano al cielo, si riversavano nelle strade a una velocità di oltre 150 chilometri all’ora (…) Chi era scappato dai rifugi cadeva adesso, in grotteschi contorcimenti, sull’asfalto liquefatto».
La Germania ci aveva messo cinquant’anni per raccontarselo: quasi niente a Est, e quel poco giusto per significare l’elevatezza della dittatura sovietica, ancora meno a Ovest. Alla rimozione della Shoah – e della Guerra mondiale nel suo complesso – si è cercato di rimediare negli ultimi decenni, e su di essa sono stati scritti molti libri, l’ultimo (I senza memoria) è di Géraldine Schwarz, dettagliato e impietoso. Soltanto che rimuovere la storia non serve a niente. Prima o poi la storia presenta il conto, e tanto più se si è cercato di dimenticarla. Rifioriscono gli attentati alle sinagoghe, gli omicidi, le bastonature, le fiumane sotto le svastiche, e hanno molteplici cause, una delle quali sono i ragazzi come sono oggi: non hanno nulla da rimuovere, nessun male compiuto né subito, e nemmeno compiuto o subito dai loro padri, ignorano tutto quanto è successo, tutto quanto gli è semplicemente estraneo. E dunque e di nuovo contano di vincere il loro smarrimento coi manganelli in mano, contro la democrazia, lo straniero e il giudeo, nel nome mitizzato di un uomo con i baffetti lontano e sconosciuto