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 2019  novembre 05 Martedì calendario

Intervista a Matteo Berrettini

Matteo Berrettini, l’uomo nuovo dello sport italiano. Diritto e servizio che non perdonano, cinefilo (ama Tarantino, Kubrick e Leone), a ventitré anni è già numero 8 del mondo del tennis e dal 10 novembre si giocherà le Atp Finals a Londra, 40 anni abbondanti dopo Panatta e Barazzutti. 
Matteo, lei è quello che nel film suona alla porta e si presenta dicendo: "mi chiamo Berrettini e risolvo i problemi del tennis italiano"?
«No, facciamo che aprono i miei avversari: «Mi chiamo Berrettini, e i problemi ve li creo».
In pochi mesi da sconosciuto a eroe: come va?
«Faccio fatica a realizzare, e non dico per dire. Io mi sento lo stesso di sempre, poi guardo la classifica... Già mi faceva strano stare fra i primi 50, ora sono fra i primi 10, si figuri».
Ora è lei la vetrina dello sport italiano: il ruolo le piace?
«Me lo sento bene addosso. Con il mio mental coach Stefano Massari fin dall’inizio l’obiettivo era questo: non solo vincere partite, ma essere un esempio».
Panatta è stato un suo modello?
«Non l’ho mai visto giocare: non ero nato. Però sì, sono cresciuto con la "divinizzazione" di Panatta. Tennista, romano come me, era inevitabile. Anche se da piccolo il mio paragone era Vincenzo (Santopadre, ndr) il mio coach».
Adriano parla benissimo di lei.
«Lo so, mi fa molto piacere. Ci conosciamo da tanto tempo, quando avevo 16 anni è stato il primo a dirmi che avrei servito a 220 all’ora. "Ma sei sicuro?". "Fidati, fidati". Mi ha sempre dato buoni consigli».
Ad esempio?
«Abbiamo giocato un doppio insieme, ho servito per primo io ma non sono sceso a rete. Mi ha sgridato: "Il doppio si gioca serve&volley!" Da lì in poi, sempre a rete. No. Però gioco il rovescio tagliato, quindi forse un po’ gli piaccio».
L’anno prossimo le chiederanno di vincere uno Slam: lo sa, vero?
«Ci sta, è normale. Ma io non gioco per fare contenti gli altri, gioco per me stesso, il mio team, la mia famiglia».
Compresa una nonna di Rio de Janeiro: i cromosomi brasiliani li sente?
«Sì: nella passione, nel calore che metto in quello che faccio. Un po’ anche nella saudade che mi porto dietro. Quando giro per il mondo mi manca la famiglia, e a nonna manco anch’io. Ma lei riesce sempre a farsi sentire».
Non recita nei cinepattoni ma di Capodanni a Rio ne ha passati tanti.
«A Copacabana. Lo consiglio. Straordinario».
È appassionato di letteratura, Hemingway e molto altro, negli ultimi sei mesi ha aggiunto qualche lettura?
«E chi ha avuto tempo? Ma devo recuperare. Pensare ad altre cose oltre al tennis è troppo importante». 
Il momento più importante di quest’anno?
«Dopo Montecarlo: ho perso al primo turno. Rosicavo. Ho chiamato Stefano e Vincenzo e ho detto: vedrete che questo stato d’animo mi aiuterà. E sono arrivate vittoria (a Budapest) e finale (Monaco)».
Se con il tennis andava buca cosa avrebbe fatto?
«Forse avrei rubato il mestiere a lei. Scherzo. Credo che sarei un buon allenatore, ma ci penserò fra 50 anni quando smetterò». 
È anche un bel ragazzo e ha già fatto dei servizi di moda, con GQ giapponese ad esempio: divertente?
«Molto. Una esperienza diversa, un modo di conoscere gente nuova. Poi mi piace vestirmi e cambiare look».
Si vesta davanti a noi.
«Jeans, scarpe di pelle, una maglietta di lino. Casual, ma non troppo. E niente tute, ne metto già troppe per giocare».
A Londra sarà più formale: ce l’ha uno smoking?
«Ce l’ho, ce l’ho…».
Cosa si aspetta dalle Finals?
«Sono un sogno. Vado lì per giocarmela a testa alta. Di sicuro imparerò molto».
Con quale degli altri 7 maestri andrebbe a cena?
«Forse Federer».
Con chi dei tre Grandi vorrebbe giocare subito?
«Djokovic. Se mi ritocca Federer, spero di fare una figura migliore che a Wimbledon».
A Londra sarete quattro under 24: i Patriarchi li pensionate o no?
«Hanno ancora una marcia in più. Ma il tempo passa per tutti».
Con la sua fidanzata tennista Ajla Tomlianovic come va?
«Benissimo. L’altro giorno mi ha detto: "sapevo che giocavi bene, ma non così tanto bene". Ah, grazie, le ho risposto…». Stupiscici ancora, Matteo.