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 2019  novembre 03 Domenica calendario

Intervista ad Adriano Panatta

Adriano Panatta, indimenticato dio del tennis nell’anno domini 1976 (Roma, Parigi, la Davis), perché il tennis l’ha inventato il diavolo? 
«Perché è un gioco maledetto, l’unico che non sai mai quando finisce. Puoi stare 6-0 5-0 40-0 e perdere. Il tennis è fatto di momenti in successione: miracolosi o mefistofelici. Se 43 anni fa non ne avessi vissuti tre benedetti (gli Internazionali d’Italia, il Roland Garros e la coppa), questa intervista non esisterebbe». 
E invece eccoci qui, a parlare di Panatta scrittore e di un libro di aneddoti e ricordi. La memoria regge, quindi. 
«Me la cavo. Questa volta ho estratto dal passato anche personaggi sconosciuti: Ezio Di Matteo, Mario Caimo, Monica Giorgi... Non si può parlare sempre di Federer, Djokovic e Nadal, due palle...». 
L’ultimo capitolo è dedicato a Berrettini, qualificato per il Master 41 anni dopo Barazzutti e 44 dopo Panatta: il tennis secondo Matteo. 
«Bravo, sono contento, se lo merita. Da n. 54 del mondo a n. 8 in dieci mesi: nemmeno io e Corrado abbiamo mai avuto periodi così felici. Il grande valore di Matteo è il gap che ha colmato. Mi piacciono molto la sua educazione e il rispetto che dimostra per gli avversari». 
Berrettini gioca un tennis lontano dal pof pof, però... 
«Gioca un tennis moderno. Presenza fisica imponente, servizio e dritto. Al di là dell’estetica, contano i risultati». 
Sia lei a Stoccolma ’75 che Barazzutti a New York ’78 non vinceste un match. Matteo farà meglio? 
«Se recupera energie mentali, stacca con il tennis per un paio di giorni, si ricarica con la fidanzata e si presenta a Londra senza nulla pretendere, farà bella figura». 
Il diavolo più diabolico che ha mai incontrato resta Pat Du Pré nei quarti di Wimbledon ’79? 
«La classica partita maledetta che dovevo vincere e invece ho perso. A quarant’anni di distanza mi do ancora della testa di...». 
Non se l’è mai perdonata, Adriano. 
«Mai. E mai mi perdonerò. Ho sempre snobbato Wimbledon, non me ne fregava niente: gli inglesi, le loro tradizioni, l’erba su cui la palla rimbalzava male, era impossibile palleggiare da fondo... Con la mia mentalità da terra battuta, non mi dava margine e levava la parte artistica dal gioco. La odiavo». 
Avanti due set a uno, con la prospettiva di Tanner in semifinale e Bjorn Borg, spesso battuto, in finale... 
«Che fa? Gira il coltello nella piaga?». 
Ha mai sognato di rigiocare il match con Du Pré? 
«Uff! Tante di quelle volte...». 
Una crescita super
E come finisce? Almeno nel sogno vince? 
«Mai. Mi sveglio sempre prima. Un paio di volte mi sono sognato in campo con un mestolo in mano: pensa la testa! Un’angoscia...». 
L’avversario più mefistofelico mai affrontato? 
«Un egiziano con una classe pazzesca, mi pare si chiamasse Al Mahmoud o El Mahmoud. Alto, magro, braccio fatato. Io ero un ragazzino, giocammo al Cairo in un circolo stupendo, con gli spogliatoi tutti in legno e gli asciugamani bianchi profumati. Mi diede una stesa micidiale. Fenomeno assoluto. Mai più rivisto». 
Il più geniale? 
«Gene Mayer. Come ti nascondeva lui la palla, nessuno». 
Il più simpatico? 
«John Newcombe e Ilie Nastase, un casinista a cui potevi voler bene solo un giorno sì e uno no. Il più ironico però era Arthur Ashe: ogni frase, una sentenza». 
Il più antipatico? 
«È una bella gara tra Connors e Lendl». 
Il più latin lover? 
«Gerulaitis, no contest. Borg era un seduttore silenzioso: ogni tanto ti voltavi e non lo trovavi più. Si era imboscato». 

Nick Kyrgios è sufficientemente diabolico: le piace? 
«No. È brutto e gobbo. Come talento naturale mi diverte di più Dustin Brown». 
Berrettini è il degno erede, Panatta? 
«È Berrettini. E mi lasci dire, a proposito del Master ‘75: non vinsi un match perché ebbi un attacco micidiale di emorroidi. Una sofferenza atroce. Contro Ashe, Nastase e Orantes fu già miracoloso scendere in campo».