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 2019  novembre 03 Domenica calendario

Achille Occhetto ricorda la svolta della Bolognina

Achille Occhetto, trent’anni dopo la sua Svolta, la sinistra non è mai stata così in difficoltà. Dove ha sbagliato?

«Nella subalternità al neoliberismo. È accaduto che di fronte alla crisi del capitalismo, che ha prodotto enormi disuguaglianze, invece che una risposta da sinistra ne è arrivata una da destra: il populismo».
Le ex regioni rosse votano a destra. Quando lei diventa segretario il Pci in Umbria aveva il 44.4%. Ora nel 90% dei comuni umbri la Lega è il primo partito. È stupito?
«C’è una crisi della democrazia, non solo in Italia, che riguarda la crisi della sovranità. In certe analisi i populisti hanno ragione, ma poi offrono risposte sbagliate, pericolose. Tutte le forze di sinistra, anche il Pd, devono fare un salto culturale, per democratizzare la globalizzazione e l’Unione europea».
A cosa pensa?
«A una grande costituente delle idee. Trent’anni fa dovemmo fare i conti con il crollo del comunismo, la nuova svolta deve fare i conti con la crisi delle sinistre. Contro l’onda di destra occorre mobilitare tutta la democrazia militante. Ma per fare questo tutti devono cambiare. Non gli statuti, che non interessano a nessuno, ma l’anima».
Zingaretti le sembra la persona giusta per realizzarla?
«Sta lavorando con grande serietà. Rifugge dalla politica urlata, e perciò trova delle difficoltà. Ma va valutato sul lungo periodo. Spero che riesca a fare la mossa del cavallo per la costruzione di un campo democratico largo».
Cosa la spaventa del populismo?
«Gramsci diceva che il popolo andava salvato dal "sovversivismo endemico", dandogli una prospettiva democratica. Senza mediazioni il popolo può diventare una brutta bestia».
Cosa ricorda della notte in cui prese la decisione di cambiare nome al Pci?
«Era il 9 novembre 1989 ed ero a Bruxelles per incontrare il leader laburista Neil Kinnock.
Rimanemmo ipnotizzati di fronte alle immagini televisive che giungevano da Berlino. Stavano picconando il Muro. Dissi subito ai giornalisti: "Qui non crolla soltanto il comunismo, ma tutto il Novecento". "Cambierete nome?" mi domandò Kinnock. Ed io: "È molto difficile, è molto difficile, è molto difficile"».
Tre giorni dopo, il 12 novembre 1989, alla Bolognina lei, senza avvertire nessuno, lancia la sua proposta.
«Ma io, davanti ai partigiani della battaglia di Porta Lame, dissi un’altra cosa: "Ora bisogna cambiare tutto!": quel tutto poteva implicare anche il nome, ma la mia attenzione in quel momento era sui contenuti, "sulla cosa". Puntavo a una costituente riformatrice per unire insieme, per la prima volta, tutti i riformismi».
Perché non ne parlò prima con i dirigenti del partito, com’era costume nel Pci?
«A parte che molte altre volte - si pensi all’ombrello della Nato di Berlinguer - la proposta fu fatta prima di ogni discussione. Ma io mi trovai a dichiarare di fronte a un evento che nessuno aveva previsto e non dovevo certo informarli che era caduto il Muro».
Dissero: "Occhetto ha chiuso il Pci".
«Così si offende un grande e combattivo partito che non si faceva chiudere da nessuno. Il segretario può fare la proposta, ma poi il cambio del nome è stato deciso dopo un processo democratico lunghissimo, dieci direzioni, quattro comitati centrali, due congressi. E ci fu una votazione, nella quale il 70% dei militanti votò a favore».
Che flash ha di quel giorno alla Bolognina?
«M’incamminai con il partigiano William, medaglia d’oro della Resistenza. Gli anticipai con un po’ di timore la mia decisione. Sa, all’epoca non era mica scontato che potessi spuntarla. "Ti capisco benissimo", mi rincuorò William.
"Bisogna cambiare tutto, anche se quel nome rimarrà nel mio cuore", e si batté il pugno sul petto. "Le ragioni per cui abbiamo combattuto non saranno divelte", risposi commosso».
Fu una decisione estemporanea?
«Ma no. Era nell’aria da mesi. A giugno, mentre tenevo un comizio per le Europee dell’89 a Firenze, mi portarono un biglietto con il quale mi si informava della repressione di piazza Tienanmen a Pechino.
Tornai subito a Roma, dove facemmo un sit-in davanti all’ambasciata cinese. Lì dissi: "Se questo è il comunismo, il comunismo è morto».
Trent’anni dopo la Svolta le sembra dimenticata?
«In tutti questi anni ho ricordato gli anniversari da solo. All’epoca, anche quelli contrari al cambio del nome, e che poi confluirono in Rifondazione comunista, mi accusarono di averlo fatto per andare personalmente al governo.
Loro ci sono andati tutti, prima o poi, l’unico che non ci è andato sono io».
Sente di avere subito un torto?
«LaSvoltafuungrande melodramma.Sidiscusseintuttele fabbriche,nellescuole. Le famiglie si divisero.Cifurono coppiechesi separarono.Fuunanecessaria discontinuità.Manellanarrazione della sinistra italiana si passa direttamentedaBerlingueralPd, saltandounpassaggiofondamentale. Comedefinirladiversamentesenon unadamnatiomemoriae?Unavera infamiastorica».
Quali meriti si attribuisce?
«Di aver previsto un percorso che poi si è verificato esattamente.
Quando mi presentai al comitato centrale dissi: "Guardate che la campana del nuovo inizio suona per tutti". Infatti, la Dc dovette cambiare nome, di lì a poco. I socialisti sono scomparsi. Anche il Msi fece la sua svolta, diventando An. Senza la Svolta non ci sarebbe stato l’Ulivo. Nulla è rimasto in piedi. Non era crollato un muro di pietra, ma una barriera ideologica.
Per questo dissi che bisognava riunire tutti i riformisti laici e cattolici divisi da quel muro».
Come spiega la sua solitudine?
«Lo dovrebbe chiedere agli altri. Io avevo un progetto ideale, per molti la Svolta fu invece l’occasione per raggiungere il potere. Nel congresso di Roma del Pci, primavera del 1989, posi con forza il problema ambientale, la questione dell’Amazzonia. Oggi è di stretta attualità, ne parla perfino il Papa.
Bettino Craxi allora mi irrise come terzomondista».
Cosa intendeva per progetto ideale?
«Una nuova cultura politica. Oltre alla questione ambientale parlavamo già dell’esigenza di democratizzare la globalizzazione, di una nuova governance del mondo, della centralità dell’integrazione europea in rapporto con il socialismo democratico. Preconizzammo il mutamento di tutto il sistema politico ponendo, con il movimento referendario, le condizioni istituzionali per il passaggio all’alternanza».
Molti la ricordano per quella frase sulla "gioiosa macchina da guerra" contro Berlusconi.
«Non perdemmo certo per quell’uscita ininfluente le elezioni del 1994. E nemmeno perché, come talvolta ricordano, durante il confronto televisivo col Cavaliere indossavo un’antiquata giacca marrone».
Cosa pensa del governo giallorosso?
«Era giusto non assecondare la richiesta di Salvini, che dalla spiaggia, attorniato da cubiste, pensava di scavalcare il Quirinale e dichiarare finita la legislatura. È un governo di emergenza cui non possiamo chiedere più di tanto».
Non decolla, però.
«Infatti occorreva passare al più presto da una fusione a freddo a una fusione a caldo. Questo non solo non sta avvenendo, ma i 5 Stelle da un lato e Renzi dall’altro fanno solo una politica corsara. Così non si può andare avanti. Ci vuole un’anima».
Crede che la sinistra possa perdere anche l’Emilia?
«Spero proprio di no».
Si riconosce in questa politica?
«È molto diversa dalla mia, che era intrecciata potentemente con la cultura. Per quelli della mia generazione la politica era vocazione, non mestiere».
Che famiglia era la sua?
«Papà lavorava all’Einaudi, a Torino, negli uffici amministrativi. Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, erano spesso a casa nostra.
Pavese, durante le vacanze a Forte dei Marmi, mi correggeva i temi. Era un uomo austero, di poche parole».
Lei esce di scena a 58 anni, come "un altoforno spento all’improvviso", come spiegò una volta.
«All’inizio non è stato semplice. Poi ho trovato un mio equilibrio».
Cosa fa adesso?
«Leggo. Ho scritto dei libri, uno anche sulle bioscienze».
L’ultimo libro letto?
«I dialoghi di Platone».
Cosa guarda in tv?
«Mi piacciono i bei film. Guardo anche i talk, ma evito quelli gridati».
La morte le fa paura?
«No, ma quando vedo che parlano di come sarà l’Italia nel 2040 o nel 2050, mi dico: "Beh, io non ci sarò più"».